Hugo Race/Michelangelo Russo – John Lee Hooker’s world today (Glitterhouse Records/Gusstaff Records)

Intrappolati in una dimensione onirica, avvolti dalla sabbia e dal sole cocente ci prepariamo ad affrontare il viaggio della rivisitazione sonore attraverso le voci e i suoni di Hugo Race e Michelangelo Russo che per l’occasione omaggiano il grande bluesman John Lee Hooker in un disco che ha il sapore della sospensione temporale, un album capace di di penetrare la parte più oscura dentro di noi. Interpretazioni sonore che si stagliano nel cielo e attingono linfa vitale attraverso la terra che bolle sudore e che sa di tempesta in arrivo, ma anche di quiete spirituale che si addentra fino all’inferno della nostra anima e ritorna trasformandoci, ritorna portando con sé pezzi come Hobo Blues o Decoration day per non parlare di Country boy o della tragicità di When my first wife left me in suoni provenienti da altre dimensioni e che i due musicisti rodati riescono ad interpretare al meglio creando un’atmosfera quasi magica e ultraterrena. Otto canzoni quindi, otto pezzi sofferti e ispirati capaci di fare da ponte con la bellezza sopraffina di ciò che è stato.

Mattia Caroli & I Fiori del Male – Fall from grace (TimezoneRecords)

Disco soppesato a dismisura che trasporta l’ascoltatore nel convergere la bellezza di fondo racchiusa in questi pezzi che si stagliano all’orizzonte e, come quadri dipinti, vivono di vita propria, portando con sé una propria anima, mescolando citazioni letterarie ad ambientazioni legate alla vita di tutti i giorni per concentrati di amori perduti che affondano nella notte dei tempi e perseverano nell’incedere, nel trovare un punto di contatto, un punto sostanziale di meraviglia, la stessa meraviglia che possiamo ascoltare in canzoni che gravitano tra levitazioni di indie folk rock e blues in una spasmodica ricerca dell’originalità in un mondo musicale saturo di proposte.

I nostri dopo questa prova ne escono vittoriosi, capaci e carichi di quella bellezza essenziale che fa innamorare al primo ascolto e rende bene l’idea di album costruito e pensato non per durare un giorno, ma per tracciare un solco alquanto indelebile nell’era delle produzioni moderne, tra passato e futuro troviamo Mattia Caroli e i suoi Fiori del male, ad incidere minuziosi paesaggi sonori che colpiscono al cuore e ci trasportano con la testa lontano, tra le nuvole.

Thomas Guiducci – The true story of a seasick sailor in the deep blue sea (Good Luck Factory)

Sprofondare dolcemente nel mare, lungo i flutti della corrente, recuperando tentativi e punti di vista per farsi immergere in toto in poesie da viandante sospeso, alla ricerca di un posto nel mondo dove stare, di un posto da cantautore marinaio in cerca della buona stella per tornare a casa, in un contesto ostile e romantico allo stesso tempo e poi ancora lo stesso  marinaio posseduto dal mal di terra in un eterno oltrepassare i propri limiti per poi ritrovarsi a fare i conti con la banale e triste realtà, metafora della vita stessa, l’uomo che non trova pace, l’uomo costretto a continuare il proprio viaggio per fare ordine dentro se stesso, come in un film introspettivo in bianco e nero Thomas Guiducci ci conduce attraverso questo disco che ingloba non solo musica, ma anche immagini e racconti in canzoni che abbandonano in parte la strada del blues per concentrarsi sulle divagazioni del neo folk americano, con arrangiamenti ben strutturati, intenzionali e qualità da vendere, tanta, che già si può ascoltare nella prima Seasick Sailor passando per Ghost Town e Jericho Rose, attraverso strade deserte e testi evocativi il nostro ci conduce al finale lasciato ad una bonus track Empty Shells, in un viaggio che ha il sapore della circolarità, del sogno e del vuoto attorno, per noi esseri umani alle prese con una natura che non consola, ma ispira.

Buzzy LAO – Hula (INRI)

Buzzy Lao è un cantautore multiforme in grado di contaminare un suono acustico con le melodie del mondo, un suono in grado di veicolare atmosfere sonore imbrigliando fasci di luce e trovando un modo sempre esemplare di coniugare la forma canzone al blues americano spruzzato dal reggae  per una musica percossa e digerita da una voce calda e delicata, una voce che si fa sostanza e tende le mani all’infinito, tende le mani ad un folk che vira nel soul approfondendo percorsi sonori che vanno bene aldilà di ciò che possiamo comprendere, c’è proprio tutto un mondo dentro, un mondo fatto di città popolate e di paesaggi sterminati, desertiche compressioni che lasciano il posto solo ai sentimenti più veri, raccontando di amici, amori lontani e lottando contro le iniquità sociali, lottando contro un sistema che non ci appartiene e tenta ogni giorno di screditarci, di farci perdere il valore aggiunto ed essenziale che portiamo dentro; ecco allora che Buzzy Lao centrifuga tredici canzoni che sono un percorso non solo fisico/musicale attraverso il nostro pianeta terra, ma piuttosto il nostro ci trasporta in una dimensione personale e introspettiva, dove l’amore sembra essere l’unico veicolo, l’unica forza, l’unica energia in grado di poterci ancora rinfrancare.

Little taver and his crazy alligators – Taver night (Autoproduzione)

Personaggio d’altri tempi che con grinta, determinazione, coraggio e pazzia ha fatto in modo di riportare in vita l’idea vera e propria degli urlatori targati anni ’60, una passione prima di tutto che si nota e si ascolta in questo disco Taver night dove i grandi di un tempo si immolano a diventare ricordo per questo mitico personaggio, un uomo che Ligabue conosce bene in quanto apparso in Radiofreccia vestito da Elvis mentre fa lo spettacolo durante il matrimonio, una vera e propria forza della natura che ha confezionato nel tempo forte stima e amore ricevuti dai fan di Correggio e non, aprendo e presentando i concerti di Ligabue al Palamalaguti a Bologna nel 2002, il Campovolo di Reggio Emila, i due super concerti  a San Siro, all’Olimpico e al Franchi di Firenze, dando la possibilità a questo incrocio vivente tra Elvis, Little Tony, Bobby Solo di diventare prima di tutto, un’icona italiana.

A livello musicale il nostro confeziona un disco ben suonato, con spruzzate di blues a confondere la melodia tipica delle musiche di Celentano e co. costruendo di gran lunga un album riuscito fin dalle prime battute, coadiuvato dai pazzi alligatori, chiaro riferimento al delta del blues per eccellenza, dove le radici di questa musica hanno  trovato terreno fertile per crescere rigogliose.

Un disco di tredici pezzi che separa il tempo e ci tuffa inesorabilmente in un florido passato, dove le semplici parole sono il veicolo necessario per una musica di puro trasporto e di sicuro e vissuto amarcord emozionale.

Ainé – Generation One (Totally Imported)

Un suono che si fonde e cola con i nostri pensieri, un suono dal sapore internazionale e stratificato a più riprese che consente di immortalare l’efficacia di frasi in loop e sagacia artistica che permette di divincolarsi alle forme di cantautorato tradizionale per dare vita ad un approccio moderno ed emozionale al tutto, capace di raggiungere profondità che si interrogano e ci rendono continui ricercatori tra le stelle in cielo.

Ainé è il progetto solista di Arnaldo Santoro, talento nazionale che entra di diritto nel panorama della musica italiana con un disco elettronico che sa di città metropolitana, ma allo stesso tempo ha il sapore del sobborgo e della rinascita, innescando a catena e mescolandoli assieme, generi come il soul, l’hip hop e l’RNB, un suono caleidoscopico che ammalia fin dalle prime battute, vantandosi positivamente di numerose collaborazioni internazionali e non come Alissia Benveniste e Kyle Miles al basso per passare a Ghemon, Davide Shorty, Gemello e Sergio Cammariere in una bellissima Dopo la pioggia, primo singolo estratto dall’album, canzone capace di intrappolare istanti di vita in una manciata di attimi.

Un album ricco di poesia questo, in grado di parlare ai giovani del nuovo millennio, un disco fatto di una luce tenue e di un’ombra nascosta nella nostra mente; quelle di Ainé sono canzoni che fanno parte di quelle meraviglie sonore che non durano un momento, ma si fanno strada nei racconti di ogni giorno, sfidando le apparenze, in nome di una costante ricerca emozionale che si spinge oltre le nostre vedute.

Nashville and Backbones – Cross the River (Autoproduzione)

Un suono che arriva da terre lontane e si innesta tra svariati generi e dimensioni in una sperimentazione che va oltre il country come si potrebbe pensare dalla copertina e dal nome della band, un suono che spazia egregiamente dal folk al blues, fino al rock accennato e alle spruzzate reggae che intercorrono a ricreare una sintonia di immagini evocative che rendono il pensiero dei Nashville and Backbones, un pensiero più tangibile, ma allo stesso tempo onirico, tra territori inesplorati del Nord America fino alle latitudini meridionali della nostra terra, per una musica che non chiede di essere al centro di un pensiero soggettivo, ma piuttosto entra a pieno diritto in un progetto lontano dall’individualismo, in nome di una partecipazione attiva senza confini.

E proprio di confini che non esistono si parla in questi 14 pezzi, si parla di libertà da raggiungere ed esigenza nel ricreare una comunione, un legame con la nostra terra e con le nostre aspirazioni, un legame che ci concretizza prendendo spunto dai grandi della musica come gli America, gli Eagles, i Counting Crows fino raggiungere il folk d’oltreoceano dei nostri giorni.

Un disco per ballare e per riflettere, canzoni che permettono di fare un giro rapido del mondo, comodamente seduti sul divano di casa, in cerca della libertà sperata che attende oltre la nostra visione di civiltà.

Fratelli Tabasco – The Docks Dora Session (New Model Label)

Album di debutto sudato e ammaestrato, registrato in presa diretta e sognante apripista ad applausi reali e sentiti, capaci di coinvolgere e dare un senso ad una jam che si trasforma in repertorio calibrato a dovere, ma non troppo, richiuso, inglobato e successivamente sparato al suolo in una sostanziale ricerca dell’appeal perfetto, del mood diretto tipico del blues e capace di far percepire le vibrazioni sonore oltre ogni aspettativa, per una band, i Fratelli Tabasco, che ha le carte in regola per insegnare.

 Una maestria che si fonde con il tempo, proprio come le cose migliori e ci regala un disco che sa di palco, che sa di fiume e vecchie campagne abbandonate, un album che parla di disagio e redenzione, unico concetto esistenziale per un riscatto che prima o poi verrà, una rivisitazione personale, attingendo non solo al passato, ma anche al presente, pensiamo a Ben Harper e alla sua monumentale opera, di classicità proiettata nel futuro, da Radioactive Mama fino a Boris’Boogie, tra l’armonica tremolante e le intersezioni funky, per nove tracce che hanno il sapore della leggenda e allo stesso tempo dei giorni che verranno.

I Goldoni – Il mondo è bello perché è avariato (Autoproduzione)

Ritorna il percorso sonoro iniziato con Il diversivo, per la band proveniente da Aprilia nel Lazio, il trio ironico e istrionico senza peli sulla lingua per eccellenza ci regala un nuovo disco che ci catapulta attraverso gli orrori e gli errori di questa società dove le canzoni sono intervallate da dialoghi al limite dell’immaginato anche se purtroppo del tutto reali per testi intrisi di quella capacità nel raccontare le storie di ogni giorno, le storie di tutti noi, scoprendoci esseri al limite di comunicazione e sostanza, scoprendoci purtroppo troppo umani per poter sperare in cambiamenti repentini di questa società.

Un album che miscela senza problemi il rock alla musica d’autore, passando per il funk e il blues, rimarcando l’essenzialità della proposta virata più sui contenuti che sulla forma, partendo con le paranoie dell’Università e giù giù fino a Dentro ai cessi dei locali, che è pezzo capolavoro contenente la frase simbolo che da il nome al disco; un insieme di colori brillanti tenuti insieme dalla voglia di divertirsi, forse questa è la formula dei nostri, che con facilità e immediatezza si guadagnano un posto di genere nelle produzioni italiane, così poco propense, solitamente, a ironizzare su se stesse, per un disco questo, che fa del suo prendersi poco sul serio un’arma sicuramente vincente.

Salamone – Il Palliativo (IndieSoundsBetter/Believe)

Da Palermo Salamone, per questo disco d’esordio dallo spiccato gusto teatrale, ricco di quella gravida capacità di attirare l’ascoltatore dentro ad un vortice di saltimbanchi paesani, tra i vizi e le forme disincantate, l’irriverenza di chi sa cosa vuole dalla musica e il fascino, mai e poi mai stereotipato; un cantautorato intriso di veridicità e racconti sonori capaci di tessere trame sofisticate, imbracciando musiche balcaniche spruzzate dal jazz e dalla forma imprevedibile di un’avanguardia multietnica e priva di confini.

Un disco nato dall’osservazione del mondo circostante, un osservare mai passivo,  che si sforza di narrare, in modo del tutto personale e autobiografico, le contraddizioni di una società malata, da analizzare con sguardo attento e sempre critico, una critica però che risulta ironica, dal sapore d’altri tempi, incrociando Jannacci, Carotone e Capossela: uno sguardo attento al presente che riesce a tratteggiare il futuro che ci aspetta.

Il nostro, con questa prova, già selezione come miglior opera prima al Tenco 2015, si garantisce un posto d’onore nel panorama della musica d’autore italiana, un posto di certo meritato per un disco che gioca con il mondo circostante, lo fa in modo ironico e divertente, ma soprattutto sentito, da perderci l’anima e anche un po’ di fiato, quel tanto che basta per farci sentire vivi.