Cappadonia – Orecchie da Elefante (Brutture Moderne/Audioglobe)

Il mastodonte, il pachiderma, l’elefante e la continua ricerca nella trasformazione, nel bisogno essenziale di non essere più gregario, ma di far crescere un disco completamente proprio, completamente vivo e suonato, che si interroga, grazie a costrutti esistenziali e grazie anche ad un’immediatezza che confeziona pezzi orecchiabili, mescolando la musica d’autore con le sonorità d’oltre manica e d’oltreoceano, incrociando gli Snow Patrol e quella capacità che rende i suoni rock e folk più malleabili e interessanti, arricchiti da un substrato di arrangiamenti che farebbero invidia a qualsivoglia produzione moderna, arrangiamenti nati dall’incontro e dalla collaborazione di Alessandro Alosi de Il Pan del diavolo e alla presenza di ospiti come Nicola Manzan e Gianluca Bartolo per un album che non conosce territori inesplorati, ma piuttosto si inerpica come presa di coscienza nei confronti dei giorni che verranno.

Nove tracce in tutto che si aprono con la bellissima e desertica Orecchie da Elefante per passare velocemente alla leggerezza di Mani di velluto e a quella Lontano che è quasi la summa del disco per finire con Ventisei per una semplicità che chiude e abbaglia.

Un piccolo gioiello nel panorama musicale dei giorni nostri, un cantautore che ha raccolto le esperienze del tempo per aprirsi ad una nuova era che lo vede protagonista, tra ballate memorabili e quel sapore malinconico che ha fatto scuola e segna indissolubilmente la strada per il futuro che deve arrivare.

Bifolchi – Mi fai schifo ma ti amo (Audioglobe)

Si raccontano le storie di tutti i i giorni in questo disco e le contraddizioni di una società malata, il dare e il ricevere e la nostra capacità che si esemplifica in un’incomunicabilità che porta l’individuo sempre più ad isolarsi con i mezzi di non comunicazione, facendolo sentire come dentro ad una gabbia priva di vie di fuga e lontano da una scelta, in primis, di condivisione futura.

I Bifolchi al loro secondo lavoro, dopo solo un anno dal precedente Diario di un vecchio porco, ci regalano un disco immediato e sicuramente riuscito, formato da canzoni scritte durante il tour precedente e spruzzate di quell’energia contagiosa che fa ballare, divertire e pensare, una capacità quasi istintiva di entrare in comunione con l’ascoltatore, allacciando i legami, i rapporti e valorizzando il minimo gesto per essere sicuri delle proprie capacità e dei propri risultati.

Un album che vede la partecipazione di molti musicisti della scena maremmana/livornese da Francesco Ceri dei I matti delle Giuncaie a Fabrizio Pocci fino a membri dei Malamanera passando per Lelio e Davide Michelini dei 21 grammi per arrivare a Riccardo Nucci de La bottega del ciarlatano.

Sono otto tracce che vanno in controtendenza con il messaggio ironico e volutamente sarcastico del titolo del disco, una comunicazione esemplificata alla realtà, quella dei Bifolchi, che dona condivisione e richiede bellezza e sostanza, un’unione che fa la forza è proprio il caso di dire, un’unione che rende più semplice la realizzazione dei sogni migliori.

Calavera – Funerali alle Hawaii (Libellula/Audioglobe)

C’è qualcosa di raffinato in questa oscurità malata e al contempo ironica, c’è qualcosa di nascosto e celato, di vissuto e un po’ sofferto e nello stesso tempo affascinante e completo di una compiutezza elegante, mai preponderante o subalterna, ma un circolo di rinascita e vita, in uno stato d’animo di perenne racconto formativo e di poesia, partendo da un fatto certamente non lieto, lo scorrere delle stagioni e la ripartenza verso qualcosa di diverso.

Calavera ci racconta i suoi funerali alle Hawaii, funerali di resurrezione, funerali di gioia e festa verso un mondo migliore; le ceneri in mare, la gioia e l’allegria, la luce che abbatte l’oscurità e gli ossimori che prendono piede a sfidare la cultura occidentale in un momento di riappacificazione con se stessi.

Penso a Kamakawiwo e alla polvere trasportata dal vento in una danza colorata e cantata dove gli ibisco riempiono di colore ciò che da noi sarebbe dipinto da ben altre sfaccettature; otto brani  per Calavera e una cover di Luca Carboni  a raccontare le tenerezze e le amarezze della pre adolescenza, un disco che parla di se partendo da un punto di vista del tutto personale fino a comprendere immagini di più ampio respiro, un racconto di sensazioni tra i flutti di un oceano baciato dal sole dove la vita non ha mai smesso di parlare.

Humanoira – Fedeli alla linea (Seahorse/Audioglobe)

Dopo sette anni dal loro ultimo lavoro ritornano di gran carriera gli Humanoira con un disco arguto e di denuncia, capace di spiazzare sin dalla lettura dei soli testi, che attraverso giochi di parole ci fanno capire come la società di questi tempi sia cambiata, valorizzando maggiormente aspetti che fino a qualche decennio fa erano semplicemente futili e poco considerati.

Fedeli alla linea ricorda i CCCP, ma qui si parla di linea della pancia, passiamo all’apertura in follia registrata con Offerta Wanna Mare per proseguire con deliranti Acari Cari, E allora senti cosa Fo’ e a seguire Il re fasullo per poi imbatterci in altre sgangheratezze soniche che si completano con Punto Vita.

Ci sono un sacco di argomenti e un sacco di spunti in questo disco, c’è il desiderio di fuggire e il desiderio di cambiare la nostra Italia, il bisogno essenziale di cercare qualcosa di diverso dentro a tutta questa opulenza, dentro a tutta questa falsità e il tentativo musicale di unire stili diversi in momenti di psichedelia lisergica che abbraccia l’elettronica e la sperimentazione; un album da assaporare in piccole dosi, per capirlo profondamente, perché qui c’è del materiale che scotta e di sicuro valore.

Lithio – Lithioland (RawLines/Audioglobe)

Rock senza fronzoli duro e crudo, osannato e sospirato, ricercato, ma non troppo in attesa di sviluppi sempre più importanti, per una band dalla carriera decennale, che in questo disco, il terzo disco, riesce nell’intento di spiegare il significato della parola abbandono verso tutto ciò che viene creato, quella tipica concezione umana di creare e poi distruggere in un circolo senza fine e senza mete.

I nostri Lithio si ispirano ad un rock d’oltreoceano di sicuro impatto che si evince già dalle prime note della virale #io no, una canzone contro l’industria della musica odierna, un pezzo al fulmicotone che lascia senza fiato per capacità di rendere immagine quasi tangibile, un concetto molte volte abusato e non propriamente chiaro e dibattuto; il disco poi continua inseguendo sonorità potenti e tematiche non meno importanti, raccontando di ipocrisia dilagante e denuncia verso un mondo che non ci appartiene fino in fondo, come nel grande pezzo Il mercato degli eroi, per passare a Il mondo di chi fino al riuscitissimo finale di La danza della pioggia, dove qualcosa resterà a parlare ancora di Noi.

Un disco sulla perdita e un disco sulla rinascita, l’attesa nella luce che verrà e la speranza di trasformare il grigiore in qualcosa di più pulito e radioso.

 

Lush Rimbaud – L/R (Bloody Sound Fucktory & fromSCRATCH Records)

Lush Rimbaud è il suono della poesia elettronica, quel salire sul palco e immaginarlo ricoperto di luci crepuscolari che ci sommergono e ci indicano la via da seguire, un paesaggio buio e qualche fascio perpendicolare alla nostra testa che ci porta verso il cielo, verso l’ignoto; evocazione sonora di un tempo criptico e introspettivo, dal sapore martellante della new wave e dalla sincope continua che caratterizza produzioni più moderne.

I marchigiani si rinnovano e si concentrano sulla formula less is more, partendo dalle cose semplici, quasi togliendo l’inutile e dilatando i tempi verso concetti che si fanno via via sempre più ampi e divulgativi: Massive Attack che incontrano i Portishead lanciando sguardi glaciali verso la poesia islandese anche se a fare da tema portante del tutto è l’oscurità con i propri sogni e i propri incubi.

Incubazione quindi perfetta, gestazione e cambio in divenire di stile e sostanza che parte con Marmite per raggiungere alte vette sonore con il finale Dark Side Call in un perpetuo atollo solitario che si domanda e racconta nei testi ciò che si vede nell’aldilà, dopo la fase rem, un dipinto di De Chirico che si muove tra chiaro scuri esistenziali e concentrici.

Ecco allora che il vuoto viene riempito dalla spazio circostante e l’atterraggio versò ciò che non conosciamo sta per avvenire, le mutazioni sono dietro l’angolo e ciò che ci aspetta oltre il sonno si racconta e si fa raccontare quasi rendendoci partecipi di questa meraviglia a occhi aperti.

Earthset – In a state of altered unconsciousness (Seahorse Recordings)

Disco d’esordio per la band nata a Bologna che coniuga in maniera del tutto personale un’attitudine punk alle incursioni psichedeliche che si diffondono nell’aria passando per quel gran concentrato chiamato indie music che basta e avanza a riempire un mondo intero.

I nostri amano spaziare, amano giocare con i suoni e in un attimo si è trasportati in un’altra dimensione comodamente restando seduti, la variegata eccentricità del quartetto si evince soprattutto nella capacità di creare immagini che permangono nel tempo, un incontro tra filosofia e psicoanalisi, alla letteratura fino a toccare le scienze politiche, un bignami di maturità quindi non solo stilistica, ma anche nelle parole, nei testi che sempre più veicolano l’ascoltatore nello scoprire qualcosa di più, qualcosa che rafforza e si rende necessario per comprendere le varie stratificazioni che appaiono e scompaiono, un andare e venire guidato dal tempo, mera conclusione soggettiva di un cammino che continua per sempre.

Ecco allora che i suoni si fanno solidi e tangibili con l’apertura chiamata non a caso Ouverture, finendo con la chiusura del cerchio marino in Circle sea, definendo una linea guida che si perde nella nebbia e da la possibilità ad ognuno di noi di prendere il meglio da questa favola in bianco e nero, che si propone di distruggere il sistema per poi ricomporlo, ripartire verso la speranza: una luce nuova tra foreste inospitali, ma ricche di vita.

Luoghi Comuni – Chi ben comincia (Phonarchia Dischi)

Sbattere la realtà in faccia, la realtà che ci opprime renderla tale solo ascoltando delle note, lasciando tutto indietro alle nostre spalle e scaraventarci in un mondo, il nostro, che ci vede compiacere di prodotti materiali effimeri che via via si esauriscono come la materia di cui sono fatti.

I luoghi comuni raccontano i sogni spezzati di ognuno di noi, lo fanno raccogliendo le voci di una generazione e lo fanno anche bene, mescolando la musica “moderna” post cantautorato anni zero con una commistione di generi che abbraccia il brit pop ben riuscito e trasportandolo in una dimensione tutta italiana che ricorda gli Zen Circus degli esordi.

Un pop rock aggressivo che ammicca alla sostanza, che vuole raggiungere una conquista personale, un gesto che scende a compromessi, sfiorando Ministri e facendo della schiettezza un punto di forza su cui basarsi per le produzioni future.

Lisa, L’alternativa e poi Alzati passando per Il ballo di San Vito interpretata con alto trasporto finendo con a Metà dell’opera , quasi a sancire una forma di esigenza nel continuare il cammino intrapreso, nel farsi portatori di un qualcosa che al momento è ancora incompiuto.

Bel disco che arriva diritto al sodo, abbandonando i fronzoli e ridando vita ad un genere, ad uno stile che ha bisogno di una vitalità intrinseca per essere continuamente parte vitale di ognuno di Noi.

Vallone – Multiversi (Musita/Audioglobe)

Paolo Farina grazie al suo nome d’arte omaggia Raf Vallone: attore, calciatore, giornalista e partigiano, in un disco dal sapore cantautorale e capace di proiettare la memoria di un tempo passato verso scogli che si possono accarezzare, verso fotografie e onde di una cultura dispersa che ricercano con grazia dell’abbandono un lieto sperare in cose migliori.

Il cantautore pugliese, presenta nella scena italiana fina dagli anni ’70 e poi rimasto dietro le quinte dall’80 al 2000 si cimenta in una prova ben soppesata e magistralmente interpretata, una prova in cui gli arrangiamenti sono parte integrante di un tutto che crea un trasporto emozionale capace e convincente, dall’alto tasso di veridicità e capace di costruire ponti con un passato che non c’è più, ponti che guardano al futuro e che si concentrano sulla parola: unico mezzo inequivocabile per raggiungere una multiculturalità sentita e vissuta appieno.

Per l’occasione troviamo alla co-produzione artistica il produttore/cantautore Lele Battista e al Mastering la supervisione di Paolo Iafelice già al lavoro con De Andrè, Capossela e Silvestri.

Un disco quindi che attinge alla nostra conoscenza, alla nostra capacità intrinseca di essere diversi e anche se condizionati da un mondo esterno, capaci di mantenere una soggettività introspettiva e necessaria per vivere.

10 pezzi come 10 fotografie, il sangue che scorre nelle vene, i ricordi, l’uguaglianza e poi la capacità di entrare nelle storie di vita vissuta, c’è Fante trasportato nel futuro, l’ideale di Due di Due in Sette anni fa che si interrompe con l’ineluttabilità della vita e poi c’è l’amore mai gridato, ma sussurrato ancora una volta, ancora, per l’ultimo istante.

Cantautore soppesato Vallone, che concede spazi di geometrie esistenziali tra un dribbling e una nuova sequenza cinematografica, tra il tempo passato a lottare in prima linea e il tempo passato a sperare.

Pablo e il mare – Respiro (Libellula/Audioglobe)

Respiro è il racconto di una donna, è il racconto di un tramonto sul mare che dona grazia ed eleganza, è un narrare disincantato e leggero di sogni estivi velati da una tiepida malinconia che avvicina l’autunno e si divincola prepotentemente dall’onda uniforme per ricreare un suono etnico e contaminato, un folk d’altri tempi impreziosito dal pop d’autore che ingloba nostalgie e riporta il pensiero al respiro in un batter di ciglio, quasi fosse farfalla mossa dal vento.

Pablo e il mare è un gruppo che conosce i risvolti della canzone e al loro terzo disco non sbaglia appeal e fornisce attimi emozionali da intrappolare in una fotografia scavata dal tempo, scavata da quel bisogno di uscire allo scoperto, relegando il tutto al passato e evolvendo in concretezza ciò che prima era solo pensiero.

Canzoni di pura introspezione che toccano necessità di ampio respiro in connubio e in simbiosi con un mondo in continua evoluzione, un gelido inverno da spazzare per essere se stessi ancora davanti al mare.

Quel mare che parla di speranza, quel mare che porta alla città e quindi ecco che si scioglie il racconto urbano in Di più per proferire necessità vivendo sogni di gioventù in Ferdinandea, passando per la meraviglia di Ammanta brano avvolgente e cantautorale fino all’amata Giappone che porta alla dolce conclusione di Sottovoce.

Guardiamo alla finestra lontano, guardiamo le tende mosse dal vento e quel sospiro caldo d’estate che sta arrivando è il sorriso di una donna, che danza su di una spiaggia deserta coccolata dai raggi del primo sole.