The sweet life society – Antique Beats (Black Seed Records)

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Disco strutturato e architettonicamente complesso capace di inoltrarsi all’interno di un caleidoscopio di colori che abbraccia idee e meraviglie che ricoprono ampi spazi di mondo, culture antropologiche e distanze quasi siderali in un’unione sorprendente e davvero unica nella sua originalità di fondo. Il disco dei due producers e fondatori che compongono con la propria orchestra i The sweet life society rende viva l’idea di paesaggio in dissolvenza che si apre a territori inesplorati, senza tergiversare sull’abbandonato, ma piuttosto dando vita a forme sempre nuove, a forme che nella lontananza del momento si fanno vicine, percettibili e donando ad una musica priva di confini un senso maggiore di appartenenza, un senso maggiore di crocevia multiculturale egregiamente suonato. Antique Beats sembra una Torre di Babele moderna dove commistioni elettroniche sono la parte fondamentale per costruire, da una base comune, una diramazione sostanziale con quello che ci portiamo dentro, una direzione che ognuno di noi sa trovare, un punto di contatto col nostro essere tanti in un mondo in continuo cambiamento. Ai The sweet life society va il pregio di aver saputo dare un senso necessario alle immagini musicali costruite in questo disco rendendoci ancora più vicini ad un vivere intrecciato e composito, ad un vivere che nella follia concettuale trova punti di contatto con quello che siamo. 


Younger and Better – Savana (La Fabbrica)

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Trance ipnotica e surreale capace di fiondarsi all’interno di sogni onirici e confidati in una musica d’insieme tracciabile sulle note darkeggianti di un’elettronica potente e destabilizzante. Il debutto dei Younger and Better è un pugno allo stomaco alla necessità di scoprire l’utile in una forma canzone conquistata a dovere dove l’analisi di una città in preda al caos si estende lungo le dieci canzoni presenti con attitudine punk e forma in divenire che ricorda la rivoluzione sonora e sperimentale di band come Battles e si discosta dai movimenti odierni puntando ad un lirismo di fondo che nell’originalità trova la propria valvola di sfogo. Gli Younger and Better non seguono le mode cercano una propria strada da seguire nei meandri tentacolari di un cemento che si fa sostanza materica per l’acquisizione di forme sempre nuove e scoperte che riecheggiano dall’interno fino alla grande esplosione finale.

Il Fieno – Riverberi (UMA Records)

Pop sopraffino ed elegante che si struttura maggiormente rispetto al precedente esordio I Vivi e rende unica la commistione di generi e l’affacciarsi inevitabilmente ad una musica targata ’80 che veicola i pensieri ad una forma canzone in evoluzione e permette l’approcciarsi ad una new wave mutata che fa da contraltare a gruppi come The National o Editors permettendo al flusso ondoso di andare e tornare come Riverberi in dissolvenza. La prova de Il Fieno è davvero sorprendente, c’è originalità e completezza, c’è ricerca estetica e cura dei suoni importante che permette alla band cresciuta tra Milano e Varese di modificare attitudini e speranze per qualcosa di eclettico e vissuto. La produzione affidata a Lele Battista è il valore aggiunto articolato a dovere e Canzoni come l’apertura Everest, Canzone Semplice, Lotus, Levanto sono solo riflessi di un insieme da ascoltare nella sua totalità per un proseguo che dimostra capacità di vedere il mondo da diverse angolazioni, sfruttando la lezione del tempo e rendendo completa una bellezza davvero unica in questo panorama italiano.

Bad Pilot – Inverse (Autoproduzione)

Disco bomba ammirevole per il gruppo francese capace di lasciarsi contaminare da un suono electro rock amalgamato alla dance d’impatto che assicura un esito incondizionato e pieno di originalità e rimandi alla scena elettronica odierna. Quello dei Bad Pilot è un insieme di brani davvero consistente e impressionante per immediatezza e ritornelli che colpiscono al cuore, refrain su basi analitiche e suoni magnificamente pop che ricordano quella grande e lisergica psichedelia raccontata dagli MGMT nel loro esordio folgorante Oracular Spectacular. Le quattordici canzoni proposte si sciolgono come caramelle dolci in bocca lasciando un retrogusto di passione difficile da trovare in altre produzioni odierne. Inverse è sinonimo di altissima qualità, una qualità intrinseca che non si accontenta di essere accostata a band come i precursori Daft Punk, ma piuttosto trova un proprio percorso, una propria via laddove il panorama si erge saturo in tutta la sua grandezza e opulenza. Davvero bravi.

Alberto Cipolla – Branches (MeatBeat Records)

Capolavoro di musica strumentale maniacalmente tendente alla perfezione che si dipana tra musica da film e paesaggi nebbiosi dove a farla padrone sono le atmosfere malinconiche che riempiono di costrutti esistenziali la nostre mente e trasformano le terre di confine in qualcosa di bellissimo e lucente per un lavoro orchestrale che ha il sapore del miglior Antony Hegarty e degli indiscussi e capaci Cinematic Orchestra per una preziosa ricerca di fondo che risplende di luce propria. Il disco di Alberto Cipolla è un substrato di architetture suadenti dove una voce profonda e convincente lascia spazio a divagazioni strumentali talmente importanti che i suoni utilizzati sono attribuibili ad un insieme orchestrale capace di penetrare in profondità valorizzando il flusso magmatico di una musica che conquista fin dal primo ascolto. Da Timelapse fino a No Regrets Pt2 si sente la necessità di un ascolto intero per dare un senso a quel cerchio formato da innumerevoli rami che come polmoni ci fanno respirare e inevitabilmente ci fanno toccare il cielo con sfiorata delicatezza.

Her Skin – Find a place to sleep (Autoproduzione)

Dolcezze pop virate sul folk d’autore ad impreziosire gli ambienti di una calma apparente che culla, trasporta e rassicura dando vitalità e forza ad una proposta che diventa perla rara da trovare, comprendere e attraversare tra magie arpeggiate e volontà di esprimere la propria idea di libertà. Poche parole per raccontare questo disco, un album trasformato in  piccola bomboniera di sogni e delicatezza misurata, un insieme di ricordi scritti nel diario di Her Skin, all’anagrafe Sara Ammendolia, un insieme di canzoni che sono e si fanno senso necessario per le avventure sonore qui raccontate e che trovano il massimo splendore in un omogeneo quadro d’insieme che raccoglie dieci acquarelli agrodolci che narrano di questo e altri mondi, di prospettive e di possibilità da cogliere. Da Prickly Pear fino a A Demain passando per pezzi chiave come Nameless Morning, Sink Into You ad infrangere il tempo fino al compimento di un’età adulta che trova nelle divagazioni e nella sostanza, nella tanta sostanza, il proprio senso di abbandono e rivincita a dimostrare una vitalità interiore che nella pacata quiete della sera trova al proprio interno grosse e chiare scintille di luce.


Wemen – Everything you kill is beautiful (Autoproduzione)

E’ il momento di farsi grandi , di diventare adulti, di raggiungere una maturità artistica che gli Wemen in questo disco ottengono in modo naturale costruendo una manciata di canzoni che rendono l’idea di un post pop che appunto scavalca le concezioni della musica popolare per come la conosciamo, ma si amalgama piuttosto ad un alternative che fa scuola, elettrizzante quanto basta, acido in parte e potente nella sua immediatezza. Garage rock quindi commistionato ad un energico modo di intendere il mondo che via via lascia posto a deframmentazioni lisergiche in canzoni come l’apertura On the road per poi proseguire con brani quali Contagious kiss, Walk Fast orientaleggiante quanto basta per percepire lo zampino di Mordecai, super canzoni come Good to be alive con la voce di Lucia Manca e pezzi simbolo come Houla o la stessa title track meravigliosa a chiudere il disco. Everything you kill is beautiful riscopre l’esigenza di chiudere con il passato, di creare qualcosa di nuovo sentendo la necessità intrinseca di trasformare il desueto e oramai deturpato in qualcosa di necessario o perlomeno pieno di vitalità. Un disco che brilla di luce, un album che di certo non dimenticheremo facilmente.

The heart and the void – The loneliest of wars (leOfficine)

The heart and the Void lo conosco bene, è passato di qui con le prime autoproduzioni, i primi EP e finalmente è arrivato al momento del grande salto con un disco completo, intenso, sincero e vissuto. L’artista sardo è un concentrato di parole e bellezza da ammirare affacciati al fiume della vita che ingloba e nel contempo sussurra parole d’amore e di speranza, un cantautore di certo talentuoso che dopo aver girato di gran lunga la penisola è riuscito ad imbastire un album completo ben ponderato e calibrato che raccoglie l’eredità del passato e centrifuga un desiderio innato nel mescolare il sempre citato The tallest man on earth, passando per Iron & Wine, An Harbor senza dimenticare i grandi che hanno fatto la storia della musica d’autore come Dylan o Nick Drake. Attraverso dieci pezzi il nostro raccoglie una pittura velata da una leggera tristezza e malinconia, un’introspezione profonda tipica dei poeti della terra d’Albione, un mix di emozioni struggenti che possiamo scegliere se far scivolare lungo l’ascolto dell’intera produzione oppure, come consiglio, prenderle e portarle nel posto che abbiamo più vicino al cuore, là dove tutto nasce e tutto muore. The heart and the void si conferma essere una delle voci più rappresentative del folk italico, un cantautore da seguire negli anfratti della nostra penisola, dalla pianura alla città, dai mari fino alle montagne imponenti e lontane.

Han – The Children (Freecom/Factory Flaws)

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Stanze dentro a stanze pieni di rimandi enciclopedici ad un alternative elettronico e sospeso, affilato nel dream pop e nel trip hop in un sostenere una voce sublime nell’ entrare nelle viscere del nostro essere persone quanto tali affermandosi in un bisogno di raccontarsi attraverso pezzi che narrano e si fanno svolta. Han ci regala un esordio importante, quattro canzoni che possono essere anche quattro singoli con le corrispettive versioni riadattate da artisti come i padovani Klune o dal progetto elettronico Safe Shelter, senza tralasciare The Children rivisitata da Daykoda e 1986 da dj Kharfi con il fiorentino Greg Haway. La nostra giovanissima autrice ingabbia le inquietudini di un’età attraverso un’eterea visione d’insieme che ricorda le peripezie di Francesca Amati con gli Amycanbe o gli internazionali Lali Puna dipingendo stanze e affreschi che si fanno narrazione preponderante nel frastuono di ogni giorno, incasellando singolarmente i suoni distinti nitidi e necessari alla costruzione di queste architetture in divenire, quasi mistiche e di certo eleganti nella loro complessità. Bellezze che escono e si consegnano quindi, perle in quantità ridotta da riascoltare in modo ipnotico più volte attentamente.

Cumino – Godspeed (Autoproduzione)

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Viaggi essenziali in ambienti solitari dove l’occasione per ritornare e incontrare un mondo in decomposizione si perde con l’onirico vagare elettronico di un duo composito per eccellenza capace di scrutare l’animo umano, integrare sogni, ambientazioni, emozioni che scatenano e si dipanano lungo l’intero ascolto di questo trattato atmosferico. La musica dei Cumino sembra immediata, ma così non è. I suoni prodotti da Luca Vicenzi e Davide Cappelletti si rifanno alla folktronica di Fout Tet e amplificano le vedute con imprese che dondolano attraverso una coperta calda e ammaliante, un qualcosa che scalda e che ti rapisce fino alla successiva canzone, fino all’ennesimo pezzo d’atmosfera. Godspeed è un album multistrato ingigantito a dismisura dalla bravura dei due musicisti, un disco che racchiude al proprio interno undici tracce tra divagazioni ed elucubrazioni easy listening ed un qualcosa che si conficca nella carne e non riesce più a svanire, almeno per ora.