Minimal Joy – Cold kiss (Autoproduzione)

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Benvenuti nel mondo dei Minimal Joy, dalla loro cupezza interiore e dagli anfratti di scena si stagliano melodie accattivanti pronte a scavare nella solitudine del nostro essere umani alle prese con i disastri che gravitano attorno a noi, una voce fuori dal coro capace di delimitare un confinare per poi superarlo, attraverso l’assenza di barriere fisiche e in bilico con la nostra identità da ricondurre al nostro io, attraverso un’attitudine dark che non vuole soltanto rimarcare una posizione, ma piuttosto utilizzare il tutto come punto di partenza per rinascere da un oblio dichiaratamente in confronto con l’esterno per un apporto sonoro davvero notevole che abbraccia gli stili e le visioni della New York anni ’90, si incastra alla perfezione con i Blonde Redhead e aggiunge quel tocco personale che rende la proposta di sicuro impatto e grande resa attraverso pezzi protesta in divenire da Cold Kiss fino all’ironica, ma non troppo Dark. Sweet. Tender Violence a segnare un cammino, a segnare un bisogno prima di tutto esistenziale, dal nero di copertina, alla luce del bianco, a dire ancora una volta al mondo che in fondo c’è sempre un po’ di speranza.

CRNG – 542 Giorni (New Model Label)

La band fiorentina entra con gran merito, dopo 542 giorni di gestazione, nel grande e immenso panorama della musica italiana alternativa e soprattutto underground, confezionando un disco che sa di terra e umanità, che sa parlare e conquistare al primo ascolto, con suoni duri e diversificati che si aprono a sostanze ultraterrene nella ricerca del mood giusto che comprime qualsivoglia necessità e si espande caratteristicamente in una prova dal sapore deciso e convincente.

Sono 11 pezzi che sembrano quassi affrontare il disgusto per la società e la continua ricerca di un modo diverso di combattere l’altalenante vivere di ognuno noi, poco compreso alle volte, ma che si fa forma canzone abbracciando testi di puro impatto metafisico, che si lasciano si ad elucubrazioni in divenire, ma che ci narrano vissuti che ci accomunano; estese rimembranze di un volere terreno.

Il loro è un alternative rock che si affaccia all’atlantico, mantenendo una componente italiota che non guasta, tra Muse e Ministri, tra tocchi di wave ottanta e pre grunge con disinvoltura abbracciati dal migliore rock anni’90.

Un disco fatto di rabbia e abbandono, un disco che sa cullarti e come mare in tempesta sa mostrare la parte più minacciosa e misteriosa, quasi fosse una tormenta in cui ci troviamo investiti ogni giorno.

Terzo Piano – Super Super (LaFameDischi)

Vincitori del contest, Le canzoni migliori le aiuta la fame, il gruppo Terzo Piano stupisce per stratificazioni rock unite da un’elettronica originale e brillante di luce propria.

La band confeziona una prova legata al tempo andato, senza qualsivoglia forma di sostanza in cerca di appigli, ma esprimendo un genere proprio e un’attitudine del tutto originale nello scrivere pezzi e nel dare forma a quel qualcosa di celato, di nascosto, tra un’elettronica sempre presente, ma un’elettronica sempre arrangiata e studiata, incursioni alternative rock e folk, abbracciando i Radiohead di Hail to the Thief, sperimentatori si, ma con la presenza di chitarre roboanti sempre pronte a squarciare la scena e a creare un gusto della ricerca che non si ferma al primo approccio, ma che tende a manifestarsi dopo numerosi ascolti.

E’ un connubio di generi questo, che rende i quattro giovani salernitani, una realtà da seguire a fondo, si perché i testi non sono mai banali e ancorati a qualcosa, sono testi che affrontano in modo visionario e onirico il vivere quotidiano, affrontano l’essere presenti su questa terra domandandosi senza essere scontati; un’eterogeneità di fondo che esplode lungo i dieci brani che compongo un disco che ha tutto fuorché sembrare un disco italiano.

Geometrie funamboliche e sperimentazioni che rendono onore ad una realtà in piena evoluzione, carica di significati nascosti, di notevole savoir faire e di quell’impressione che si percepisce da lontano che siamo di fronte ad un qualcosa di grande.

 

Kaos India – Stay (Autoproduzione)

Ep di sole 3 canzoni, bruciante, ammaliante che si ispira melodicamente all’eredità del grunge per trasformare il costrutto essenziale in nuovo racconto, in nuova densa capacità di stupire e collaborare alla creazione di una solida e proclamata autocombustione.

I Kaos India sono una di quelle band che fanno le cose per bene e si sente, curando i minimi dettagli, i minimi particolari e dando vita ad una forma canzone che rimane in equilibrio levitando tra gli anfratti della coscienza, levitando fra mare e cielo con potenza dosata che non fa mai male, anzi il trucco è proprio usare la propria forza sapendo di averla.

Vengono da Modena, iniziano quasi per gioco dando forma e concretezza ad un progetto di respiro internazionale che avrà come punto di svolta un album The distance between, preceduto da Kaos India ep e consolidato ora con le 3 tracce che compongono Stay, tra post grunge e alternative rock d’oltremanica, un suono personale e curato, vissuto dichiaratamente e incanalato in fantasie senza tempo.

I topi non avevano nipoti – I topi non avevano nipoti (Volcan Records)

Sembrano i tre da Pordenone, gli allegri ragazzi morti che in qualche modo hanno fatto, nel loro piccolo, la storia della musica indie italiana, sembrano appunto, ma non lo sono, oggi su IndiePerCui passano I topi non avevano nipoti, il palindromo per eccellenza, dove al proprio interno risiede un’anima rock ribelle nello specifico e forte capacità di raccontare.

Raccontare quegli anni che ci hanno attraversato, quegli anni carichi di rimpianti e la voglia di cambiare, un prima e un dopo fatto sostanzialmente con la capacità di chi ha vissuto in prima persona il cambiamento e da chi con coraggio ha preso ispirazione per creare un qualcosa, per dare un senso al già scritto, per compiere il salto nel vuoto necessario per essere diversi.

Sono 11 canzoni queste, 11 canzoni che reinterpretano i suoni puliti delle chitarre e lo fanno con una forte capacità intensiva, mi piace pensare che attorno a queste canzoni ci sia un prima e un dopo, cosa eravamo e cosa saremo, tante idee nelle testa, ma l’insicurezza che qualcosa vada storto, che qualcosa non sia come ce lo siamo immaginati.

Ecco allora che  i nostri romani non parlano di sogni o di sterili lontananze, ma si fanno veicolo per raccontare una realtà, quella dei trent’anni, l’avere trent’anni ora e vivere in un mondo affossato al suolo, sottolineando dubbi, debolezze e verità.

Siamo visti come Cavie, in Quartieri affollati, tra Radiazioni e Inquinamento e poi la Fretta ancora che ci attanaglia per poi non cambiare e restare Uguali.

Il pensiero si fa vivo, gli strumenti iniziano a suonare e forse un pezzo di adolescenza che racchiude l’illusione di cambiare ce la siamo già mangiata, non ci resta che uscire, ora, dalle nostre case e ricostruire con umiltà un mondo in rovina.

MIWOOK – IN SANA MENTE (DgRecords)

Elettronica a creare atmosfere post grunge che colpiscono grazie all’efficacia di cori in dissoluzione che rapiscono, trasportano e conquistano, relegando il tutto, inglobandolo in un incedere sonoro dalla forte personalità.

Rabbia gridata e voluta tra sintetizzatori che inebriano parti scandite da una batteria carica di sincope e precisa nell’abbattere il muro del suono, a ricreare geometrie di esistenze perdute, buttate al suolo e volutamente atte al pensiero supremo, al pensiero che indica la via prima di tutto e sopra ogni cosa.

Vengono da Brescia, questo è il loro primo Ep e i Miwook, nonostante la giovane età, hanno una forte dose di coraggio nell’assemblare e nel dare nuova forma al rock defunto, grazie a quattro pezzi, i centrali strumentali, capaci di infondere energia e nuova linfa vitale nel raccontarsi.

Disco carico di adrenalina, capace di conquistare al primo ascolto, che non lascia giudizi a metà, ma che promuove a pieni voti questa band che suona da internazionale, pur vivendo in casa nostra, una band da valorizzare e da accudire come fosse fiore in via di estinzione.

Oltrevenere – Oltrevenere (R)esisto

Luce e oscurità che attanaglia e segna il cammino, entrare in un tunnel, in un abisso fatto di passioni e di cause perse, di possibilità e di orrore, tra il sogno e l’incubo, l’onirico e il reale come uno schiaffo che ti riporta a considerare la vita ancora una volta, renderla tale, essenziale avamposto da cui scrutare la novità che ci permette di sopravvivere.

Miscuglio di rock alternativo tra Teatro degli orrori e Tre Allegri ragazzi morti in una commistione che intrappola l’ascoltatore nel concentrarsi in modo costante al divenire spaventoso che ci attende, un mondo parallelo raccontato, vissuto e decomposto da dove poter ripartire, un’immagine speculare di una realtà che non è più tale.

Oltrevenere quindi oltre i pianeti conosciuti, oltre lo spazio sconfinato e accecante per la propria oscurità, mondi diversi, lontani, impossibili solo da pensare, ma che rinvigoriscono l’idea che il tutto dentro di Noi sia finito, un vortice di infinitezza bellissima e concretezza tangibile.

Provenienti da Vicenza i nostri, dopo aver fatto da opening per band come The Zen Circus e Sick Tamburo, si contorcono nell’esaltazione del mistero e creano un album dai toni cupi e decadenti che colpisce fin dagli inizi e via via si inabissa nell’eclissi totale, cambiamento epocale di divergenza sonora che non lascia scampo.

Un disco ben congegnato e studiato che sa di pioggia autunnale e voglia di reagire perché l’emozione più potente è lo scopo di un istante.

Kamera Kubica – Kamera Kubica (R)esisto

Kamera Kubica copertina

Linguaggio diretto, semplice e senza fronzoli che si apre a incursioni indie rock per sottolineare l’importanza di testi che parlano di abbandono e di totale menefreghismo verso una società che non ci appartiene e priva di qualsivoglia aspetto che ci mantiene in vita.

Vengono dalla provincia di Vicenza e sono i Kamera Kubica, band che rincorre il sogno di apostrofare il genere in innovazione sonora, concentrandosi su melodie pop dal piglio rock distorto, dove appunto quest’ultime la fanno da padrone passando per echi di sospirato suono che avanza e colpisce.

Peccano un po’ di ovvietà questo è vero, ma nel complesso il suono che ne esce è un incrocio tra i primi Afterhours e le lisergiche dicotomie dei Marlene abbracciati per l’occasione da un’ubriacatura contorta in simil Muleta, dove il bicchiere mezzo pieno porta il gruppo a sali scendi emozionali.

Si parte con l’esistenziale Sono solo per finire con l’altrettanto esistenziale Io sono qui, passando per i viaggi Se Salperai e Budapest.

Suono distorto e contemporaneamente melodico, dieci pezzi che si concentrano sul ciò che abbiamo avuto dalla vita  e su ciò che ancora possiamo spendere, una direzione sonora ben precisa che, senza fronzoli, mette al tappeto per vivacità della proposta, con l’augurio che questo sia solo l’inizio.

Miriam Mellerin – Il vizio (Arroyo/Metarock)

Secondo album granitico, corposo e pieno di rimandi alla scena stoner questo dei Miriam Mellerin, band pisana che al secondo lavoro si interseca in melodie legate al post grunge di metà novanta per sfociare inevitabilmente in un concentrato di parole-suono che si abissano fino a far della lingua italiana un veicolo per trasportare emozioni, impresa molto difficile di questi tempi, visto che quest’ultima, nelle produzioni odierne, è impiegata perlopiù in testi che parlano di malinconiche vicende non sense.

I nostri escono da questo mondo pre imbottito di consuetudine per creare un rock studiato meticolosamente con tanto di cori a coronare un approccio diretto, schietto e ingombrante.

Si perché si tratta di un disco registrato in presa diretta , che in qualche modo racchiude lo spirito della band, incapsulata in navicelle al fulmicotone che si librano in cielo lasciando scie di fuoco.

E’ un album raffinato, che parla di incertezza sul domani e sul male di vivere, un disco che abbraccia elementi del cantautorato per portarlo in una dimensione esplosiva, incerta e soffocante, specchio di una realtà che precipita nel buio giorno dopo giorno.

I pezzi sono argini per questi tempi, argini di una terra che ha bisogno di essere incanalata in un fiume di luce.