Palinurus Elephas – Fame di niente (Autoproduzione)

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Giovani alle prese con il proprio scavare dentro per rilasciare pian piano una musica fatta di sogni e di speranze, improntata su di un indie rock che amplifica aspirazioni e volontà di costruire qualcosa di innovativo partendo dalle soggettività, dall’essere parte di un qualcosa che in queste otto tracce di annientamento cerca di trovare un proprio mondo, una propria via costruita ad arte e rilasciata pian piano per dare un senso diverso a tutto ciò che li circonda. Sono in quattro, provengono dall’Oltrepò pavese, si chiamano come gli antichi definivano l’aragosta mediterranea anche se abitano ai piedi delle montagne, fanno un indie rock genuino spruzzato dalle mode del momento stabilendo, attraverso testi  mai banali, una costruzione di forma canzone che si apre con Testa bassa e finisce con Secondo cervello, parlando di piante, di dio e di creazione, di mondi da comprendere, da allargare, trasformando tutto ciò che è banale in un qualcosa di necessario di cui nutrirsi, quasi fosse un respiro a cui non possiamo rinunciare.

Lekka – Lekka Ep (Autoproduzione)

Martellante autoproduzione che spicca per notevole risultato di fondo mescolando la scena indie rock con quella dance, soffermandosi forse maggiormente su quest’ultima e raggranellando un interesse per le commistioni davvero notevole e necessario per garantire un risultato sorprendente come questo. Ci si muove in modo sopraffino partendo da quella Following Euphoria che ricorda gli Air dei tempi migliori proseguendo attraverso una dance che non è di certo banale, ma piuttosto si sofferma sulla ricerca e sul giusto tramite tra già sentito e innovativo, aprendo porte sempre nuove e valorizzando l’intelletto musicale stuzzicandolo a dovere in un ep che raccoglie tre tracce originali e prosegue con la finale Lekka Rework che racchiude composizioni di Boys Noize e Gesaffelstein. Un disco che non è un punto d’arrivo, ma piuttosto è un insieme di brani che si fa ricerca mutevole in continua evoluzione e contaminazione senza dare mai nulla per scontato.

Vikowski – Beyond the skyline (Costello’s Records)

Poesia sonora dal gusto internazionale che abbraccia e si posiziona dietro la linea dell’orizzonte e protende le proprie aspirazioni a creare un suono curato, elettronico e sintetizzato quanto basta per dare vita ad un’emozione costante che si respira lungo le otto tracce che compongono questa prove davvero notevole. Un disco capace di incontrare le introspezioni dei The National, passando per James Blake e Bon Iver in sodalizi che vanno oltre le apparenze, concentrando nel testo vissuto e raccontato per immagini un amore nei confronti della solitudine, del tempo che scorre, degli amori senza fine, protendendo un concetto e accarezzandolo fino al calar della tenebre, fino a quella sera che è portatrice di luce buia nel crepuscolo, fino a quel minimale di fondo che parla di sentimenti mai raggiunti e speranze da ammirare per suoni pop che vanno oltre e intascano una gratitudine per la vita che come emblema stratifica il bisogno di maggior musica come questa per vivere in un mondo migliore: una musica pensata e sofferta, una musica che parla di noi.

12BBR – 12 Bars Blues Revolution (Autoproduzione)

Band dalle enormi potenzialità che ripercorre in soli cinque pezzi una storia del rock quasi dagli albori, omaggiando con il proprio stile e soprattutto con il proprio suono, una musica a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, suoni che si dimenano tra la chitarra di Hendrix fino alle esplosioni colorate e graffianti di band come gli Stones impreziosendo la proposta con il sapore polveroso di un grande Jack White fino a comprimere sforzi e successi con le lisergiche e sotterranee avventure dei Tama Impala in un concentrato di energia sonora che ben rappresenta una costante ricerca e un amore per la musica, per le cose fatte bene, per la cura quindi e anche per la sfrontatezza che i nostri mettono in pezzi come l’iniziale How does it end? fino al finale meditativo lasciato alla bellissima Cold Floor per un disco che rappresenta un punto di partenza davvero importante per una band che spero, farà ancora parlare di sé per molto tempo.

Luoghi Comuni – Blu (Phonarchia)

Suoni anni ’70 che riproducono con stile originale una perfezione quasi lisergica che contribuisce a creare in noi una sostanza dal forte impatto emozionale e interagiscono con una modernità di fondo che esplode in testi onirici, spiazzanti e nel contempo pronti a rispolverare un tempo andato, tra l’utilizzo sapiente di un cantautorato old style e l’intreccio degno di nota di una musica che attinge la propria sostanza vitale da un’epoca che non c’è più. Bello l’approccio corale, bella l’energia di fondo che trasforma con potenza mai gridata un cielo da blu in grigio e poi in nero in un cambiamento tangibile e reale, tra testi introspettivi e paura di vivere, tra eroi solitari che combattono contro i mulini a vento del nostro intelletto, attingendo la propria forza dalle esperienze; notevole l’apertura di Vinavyl e di Blu per poi proseguire con le riuscite Tra noi due o la finale Aurora, per un album altamente contagioso, che rispolvera, proiettandolo ai giorni nostri, un genere che non esiste più o che perlomeno esiste ancora nei nostri sogni.

ZEMAN – Non abbiamo mai vinto un cazzo (To lose la track)

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Soffermarsi nel mezzo, nel sudore e nella fatica, magari nel rimpianto, ma anche in mezzo alla possibilità di vedere sorgere dalle ceneri qualcosa di duraturo, di bello e di reale. Gli Zeman al secondo disco sembrano recepire una per così dire deriva nichilista anche se la loro sostanza sonora e poetica viene rappresentata grandemente ne dalla vittoria ne dalla sconfitta, ma piuttosto dal simultaneo vivere tutto il resto, abbracciando sconfitti e vincitori e valorizzando le lotte della gente comune per riuscire ad emanciparsi da una società che vede solo il bello e l’apparenza, abbandonandosi ad un bisogno di ricerca che proprio nel non vincere un cazzo ci fa essere unici soggetti in grado di intraprendere il proprio cammino. Il disco della band di Udine è un disco composito che mescola il post punk con un indie sotterraneo, apprendendo la lezione del tempo e intercalando pezzi che sembrano estrapolati dal migliore repertorio di band come Zen Circus in un sodalizio con la musica d’autore che proprio in questo disco è necessaria per esprimere un concetto duraturo, universale e necessario per tutte le band che vogliono e che tentano di diventare qualcuno o qualcosa perché la felicità è un traguardo che solo noi possiamo valorizzare.

Stefano Meli – No Human Dream (Seltz Recordz)

Musica strumentale che mira dritta al cuore dei paesaggi interiori in sovrapposizioni acustiche di rara bellezza che mescolano il blues ad un sottofondo sonoro da ambientazioni reali e tangibili, una comunione con il mondo circostante che diventa arte e prosegue il proprio cammino alla ricerca di una strada da percorrere. Una strada che porta con sé le paure di un domani e il desiderio, almeno per una volta, di essere diversi, di costruire, di assemblare, di garantire passione nell’oscurità che avanza, trasformando il proprio io nelle forme della luce e mantenendo quella costante attualità di base un motivo in più per credere che questa musica parli proprio di noi, del nostro essere dentro, della nostra capacità di cambiare valorizzando il silenzio contro il rumore simultaneo, tra la solitudine e il riscatto in un mondo dove qualsiasi elemento della natura si trasforma per dare vita a qualcosa di unico e raro.