Clorosuvega – Clorosuvega (New Model Label)

Evoluzione del metal in ferrose cospirazioni abbondanti suono dove la forza concentrica di questa metamorfosi dona al progetto spazi vitali per addentrare il proprio essere in una miriade costante di contrapposizioni buio luce dove la potenza lascia anche un po’ di posto alla ricerca e dove le ombre del passato sono abbandonate per una prova matura e composita ricchi di rimandi ad un alternative esuberante, ma nel contempo soppesato, dove la batteria dominante è contesto essenziale per l’arrivo di chitarre laceranti e corpose ad incupire suoni di voce e basso che per l’occasione colpiscono al segno in pezzi che sono l’esemplificazione vitale di una morte in vista dove il Rifiuto e Frattura sono le genesi per l’apocalisse ad occhi e orecchie aperte e dove le sonorità collimano con i costrutti di geometrie iperboliche che trasformano il passaggio dall’adolescenza all’età adulta in un qualcosa di tangibile e pronto a raccogliere i frutti sperati.

Volemia – Eh? (New Model Label)

Volemia è la locuzione sospinta ad arte che imprigiona parte di noi attraverso la durezza di uno stoner tipicamente italiano che nel bene o nel male si scontra ed incontra le produzioni dei bergamaschi Verdena in un flusso concentrico in grado di costruire comunque, attraverso una ricerca originale, un suono che abbraccia la pre Seattle, la fine degli anni ’80 e la culla del grunge in contrapposizione sostanziale all’indie folk moderno e cercando di ottenere da questa produzione una fantastica panoramica grazie ad incrociatori sonori che fanno di questo rock alternativo un punto di partenza per un album davvero notevole e pieno di passione che porta con sé un dichiarato intento di valorizzare soprattutto il live, il palco, il sudore, grazie a canzoni che sprigionano energia vitale registrate in presa diretta, canzoni che entrano come un lampo nella nostra mente e a fatica ci abbandonano. Si parte con la trepidante Mammut si passa poi per L’ebrezza del vuoto, E’ colpa mia fino a Dammi un la in un disco che ha i volti di un rock compatto e potente, fragoroso quanto basta per farci sentire il richiamo concentrico di una ricerca rumorosa che proprio nella parola suono trova il suo punto di valore più alto.

CRNG – Qualcosa a cui credere (New Model Label)

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Ecco scoppiare nel cielo l’album della maturità per i CRNG band Toscana con alle spalle un disco d’esordio già recensito molto positivamente su queste pagine che ha dato vita ad un cammino, un percorso virtuale ricco di soddisfazioni, non tanto per la cura di produzione messa anche in questo Qualcosa a cui credere, ma anche e soprattutto per la bellezza intrinseca delle canzoni create grazie ad una sapiente miscela di poesia in rock che trasforma un alternative indie nostrano in qualcosa di più internazionale, sentito e creato ad arte dove la ricerca si sposa con una maturazione percepibile e mai banale. Anche qui ci troviamo davanti ad un’impostazione che incontra il rock di Muse, dei primi Radiohead e di tanti altri gruppi italiani come Alkene, Bosco concentrando l’attenzione su testi che parlano di annientamento e fuga dalla realtà abbandonando i soli estivi e facendo entrare la decadenza sospinta dell’Autunno in canzoni che guardano ad un futuro da costruire, da rifare, in un sodalizio esistenziale che parla da vicino di noi, parla al nostro cuore, con la rabbia di chi vuole cambiare ancora qualcosa, con la volontà di dire ancora tante cose importanti rimanendo fedeli ad una linea di demarcazione ben definita e sospesa tra la ricerca e l’abbandono.

Genoma – Stories (New Model Label)

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Suoni che vengono da lontano quasi da sott’acqua ad incupire gli attimi e i bagliori di luce che si respirano in questo esordio targato Genoma che ha il sapore della carezza in bellezza che si affaccia nei confronti di un mondo in decadenza attraverso ballate che si aprono ad atmosfere intrise di significati reconditi e passionali dove la componente pop si mescola ad un suono meno agevole con echi di new wave non troppo celata, notevole la cover di Atmosphere dei Joy Division, per suoni capaci di tessere melodie attraverso un basso pieno e coprente, un piano, un violoncello, una batteria leggera e dipinti di vita che affrescano una voce melliflua pronta a condurci nelle architetture degli Amycanbe più oscuri o dei vicentini Nova sui prati notturni, per un esordio questo che ha tutte le carte in regola per far parlare di sé per molto tempo, almeno fino all’uscita di un vero e proprio full length.

Per info sul disco:

  genomaproject.com

Denial – Different ways (VREC)

Suoni pregevoli d’oltremanica che incrociano l’indie brit pop lasciando margini di amore da scoprire nelle plurime sfaccettature di una musica che ben si interseca con le intenzioni vissute ed elencate nel disco dei romani Denial, un album che è un omaggio al rock degli anni duemila tra la musica degli Stereophonics, dei Trevis, dei The Verve e degli Starsailor in canzoni che parlano della rarefazione del momento e del continuo incedere sentimentale all’interno di scatole chiuse di vita in un’internazionalità ricca di passione che con naturalezza scava l’animo umano per una prova d’insieme che riemerge dal tunnel delle disfatte quotidiane e si pone tra il riscatto e la rivincita contestualizzando gli ambienti di ogni giorno e percependo, con forte spirito, una musica che si staglia tra il sofferto e lo spensierato, una prova che porta con sé un forte carico di potenzialità ben espresse dal singolo Strong love fino a comprimersi nel finale di Sinking proud in un sodalizio d’attesa emancipato che in questa musica trova lampo di luce alla fine del tunnel.

Lambstone – Hunters & Queens (VREC)

Disco d’esordio che si atteggia ad essere punto d’incontro stilistico tra un classic rock di qualche decade fa e nel contempo percepito grazie ad un alternative dove chitarre in evidenza firmate anni ’90 si destreggiano in una prova corale e ben riuscita, amalgamando suoni e modernità con gusto del tutto personale soffermandosi sul significato di uomo e donna, i cacciatori e le regine posti in bilico tra azione e sentimento, pancia e cuore in un uno scambio eterogeneo di sensazioni che si approcciano ad un suono che incasella il grunge dei Pearl Jam e degli Staind, un suono potente e distorto accolto a braccia aperte da una voce che ben scruta le sfaccettature dell’animo umano arricchendo un disco fatto di sudore e amore, amore espresso da Sun passando per Stonger, Jesus e la finale classic cover dei Kansas Dust in the wind per bellezza d’insieme minuziosamente curata ed egregiamente eseguita, forse la chiave live sarà una buona prova del nove per comprendere la veridicità di questo intero disco.

Newdress – Falso negativo (VREC)

Suoni sintetici che inglobano l’atmosfera di luci e ombre attingendo direttamente dalla wave anni ’80 una capacità di ricreare elettronicamente atmosfere che ben si sposano con il repentino cambio musicale odierno in una ricerca che in fin dei conti si fa novità nella stesura, ma anche nel suono, ad arricchire ciò che prima era già di per sé punto di partenza importante per una band che ha un forte debito nei confronti di gruppi come Joy Division, ma anche nei confronti di una serie di modernità acclamate internazionalmente come gli Editors in un dissertazione musicale fatta di bianco e nero, una contrapposizione costante che si respira lungo tutte le nove tracce che fanno parte del disco in un sali scendi di intenzioni che soprattutto nella prima parte si concede ed emoziona altamente grazie ad un’ispirazione che sembra non sfuggire, facendo presa sull’ascoltatore in modo da ricreare un ponte tra passato e futuro, un ponte di ricerca che possiamo assaporare nelle prime note della riuscita Attico Narcotico, ricordando Bluvertigo fino a quella Sorride a tutti, ineluttabile finale a sancire una buona prova ben costruita e pronta a ricordare ciò che è stato proiettandolo nel quotidiano nero vivere che ci accomuna.

The big blue house – Do It (Stabbiolo Music)

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Si entra pian piano attraverso i colori della sera grazie ad una musica da night club fumoso e alcolico dove l’essenzialità di un sound d’atmosfera si ripercuote lungo le tracce di questo ottimo disco blues che ripercorre, senza stancarsi, una tradizione fatta di sudore e di note lasciate nell’aria a contaminare reazioni emozionali che ben si sposano con la levatura del progetto stesso. Un progetto creato e portato avanti dai The big blue house, band senese che attinge da un repertorio e da radici che hanno fatto la storia della musica, ripercorrendo a gran voce la lezione di  Buddy Guy e di Eric Clapton sfumature su sfumature ad intessere una fitta trama di consequenzialità decisa e ben proposta nelle otto tracce che compongono questo Do it, dalla bellissima appunto title track d’apertura fino al finale lasciato a This is how i feel per un concentrato denso e carico di ricerca che proprio nel passato si sofferma a ritrovare respiro vitale.

Mush – Mush (Etichette Varie)

Post punk emozionale che comprime la rabbia del tempo passato e la fa esplodere in modo del tutto naturale grazie ad un’immediatezza che ha fatto scuola e grazie anche ad un apporto tecnico che trova ispirazione nell’attimo di ricerca confezionato ad arte per una band che non smette di gridare il proprio disagio intensificando una musica che attinge proprio dagli anni ’80 il proprio stile inglobando la musica di CCCP, Diaframma, CSI fino alla vibrante prosecuzione di band come FASK a dire a tutto quello che ci circonda che non rimaniamo qua in eterno e il vuoto assoluto è vicino, il tutto condito dall’intervento di chitarre acide in esigenza di richiamo e velocità d’intenti e una base ritmica davvero cazzuta che non lascia respiro e a pieni polmoni sancisce la disfatta in arrivo attraverso queste dieci canzoni di puro impatto che rendono i Mush una delle realtà emocorepostpunk italiane più interessanti degli ultimi anni.

Petrolio – Di cosa si nasce (Etichette varie)

Petrolio lo senti avvicinarsi da lontano, da sotto i piedi che avanza in veste elettronica e sradica preconcetti per porsi nei confronti di un assoluto morente ad intessere trame di abbandono, di dolore, di buio che circonda una prova dove il silenzio o la calma di un pianoforte sono maggiormente discostanti di tutto quello che ci gira attorno, una prova solista quella di Petrolio moniker di Enrico Cerrato, un prova che trasuda potenza che si esprime in modo esemplare passando da un industrial ad un ambient d’ampio respiro, quasi fossero i suoni della terra, le ombre discostanti assuefatte dalla paranoia collettiva e quella strana sensazione di vita che viene via via ad esaurirsi, ad incombere nell’incedere spassionato di tempeste e fulmini cercando una via d’uscita nel labirinto della nostra ragione, ma scoprendo alla fin fine che siamo fatti di molecole pronte a disgregarsi al suolo, tra la materia e l’infinito ecco Di cosa si nasce a fare luce dove luce non c’è.