Filippo Dr.Panico – Tu sei pazza/Edizione Deluxe(Frivola Records)

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Tempo fa avevo parlato dell’ufficiale Tu sei Pazza in questi termini:

Un disco spiazzante dalle sonorità semplici e un’attitudine punk da primo della classe che sfrontatamente cantando in italiano ci racconta di amori non corrisposti, di amori perduti, un disco sull’amore insomma.

Non quell’amore però da carta patinata e nemmeno quello che si fa raccontare nei diari segreti adolescenziali, questo è un amore da ring, un amore che si consuma e lotta per sopravvivere, dietro alle apparenze, dietro alla scia di vapore che ci ingloba, mentre tutti gli altri stanno a guardare, disinteressati, svogliati, accomunati per nulla dall’intento finale.

Quello di Filippo dr.Panico è un disco  dal carattere forte e deciso, con frasi ridondanti e ripetitive, segno dei tempi, segno di un concetto ossessivo, gridato e snocciolato mentalmente; Filippo ci consegna le istruzioni per l’uso, quelle da scatoletta dei medicinali, quelle da buttare per seguire l’istinto, a Filippo sostanzialmente non frega niente di come andrà questa sfida, lui tenterà in tutti i modi di viverla e questo basta.

L’edizione Deluxe regala sorpresine per tutti coloro che vogliono scoprire il mondo di Filippo nella sua per così dire completezza, anche se di completezza non possiamo parlare, ci sono diversi adesivi all’interno del plico, un poster, il libretto straordinario delle sue mitiche poesie ormai stra consumato da un po’ e in procinto di mietere vittime a dismisura sempre e comunque e il disco vero e proprio che si completa con una serie di canzoni, presentate dall’amica Mica che proseguono la ricerca sonora un po’ punk riadattata ad un cantautorato multiforme che nella finale Situazioni in altissimo male mare dà il meglio di sé e dona alla proposta una visione d’insieme altamente contagiosa che non smette di stupire anche dopo numerosi ascolti.

Uncle bard & The dirty bastards – Handmade! (Autoproduzione)

Sogni abbandonati sulle scogliere dove il mare continua ad infrangersi per poi ritornare ancora più inesorabile alla ricerca di un suono che si fa verdeggiante e carico di un folk che si fa musica estemporanea e nel contempo raccolta a racchiudere segreti di terre lontane, abbandonate, dal rigoroso silenzio fino alla costruzione mentale e musicale di suoni che solcano i mari e si riappropriano con frastornato stupore di tutto ciò che è andato perduto, di tutto ciò che è in procinto di sopravvivere oltre i segnali di un folk che sembra essere stereotipo, ma nel contempo si carica di una doverosa essenza per personalizzare una proposta che vede in primis un gruppo di amici che nella semplicità del momento raccontano storie attorno al fuoco, lo fanno con fare deciso e ispirato in questo disco, un disco completamente handmade fino all’autoproduzione, un album in cui gli ostacoli sembrano solo essere lontano ricordo e dove i sogni possibili e ispirati si contendono su di un palco polveroso capace di intrappolare il colore dell’Irlanda.

Diplomatics – I lost my soul in this town (Shyrec/GDrecords)

Copertina di Diplomatics I LOST MY SOUL IN THIS TOWN

Band vicentina che completa il disegno di sputare in faccia alla realtà precostituita al suono di un rock ‘n’ roll pieno di sostanza e rifacimenti super taglienti in grado di delineare alla perfezione una scena costituita perlopiù da forze in campo che se ne fregano principalmente del pensiero comune, ma che attraverso questo disco danno valore ad una comunione d’intenti che ben si affaccia al grigiore plumbeo di un nordest che non da la possibilità di emergere oltre la coltre industriale dell’abbandono e dove sempre più si avverte l’esigenza di compiere un passo ulteriore per scaraventare a terra vecchie usanze per dare spazio a originalità e indipendenza. I Diplomatics conoscono gran bene la formula in questione e in questo disco regalano emozioni in blues che ben si sposano con le esigenze di questi anni, una formula non del tutto originale, ma capace di dare grandi soddisfazioni in fatto di feste collettive e rabbia repressa pronta ad esplodere, in nome di un divertimento e di un rumore che fa riflettere oltre ogni maniera possibile.

Stefano Dentone & Antonio Ghezzani – I Pugilatori (Roots Rebels Records)

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Incontro sul ring della vita per chitarre acustiche impegnate e convincenti a fondere stili, non per ingannare l’attesa, ma piuttosto per ricercare nel proprio mondo una chiave possibile aperta a nuovi territori da esplorare e su cui concentrarsi per dare un senso maggiore alla proposta offerta e non di minore importanza per completare un percorso di appartenenza al cosiddetto roots rock, quello delle radici, così essenziali per completare l’idea a 360° di un duo in fase evolutiva capace di mescolare canzone in italiano con quella in inglese in un rapido disegno circolare di vita che attinge proprio dalle basi, dal substrato culturale dei nostri, sempre attenti osservatori esterni, le sementi necessarie per osservare con occhio critico e alle volte disimpegnato le enormità delle forze in campo, in una sfida sottintesa al blues, così calda e avvolgente da rendere più semplice anche l’approccio e l’ascolto da parte del fruitore finale, in un’esigenza quasi estemporanea di ridare vita ad uno stile prima di tutto personale e di vitale importanza per soddisfazioni sempre nuove e garantite.

Virginia Waters – Skinchanger (JAP Records)

Copertina di Virginia Waters Skinchanger

Tuffo sonoro rimediato dagli anni ’90 dove il rock si mescolava all’indie per originalità della proposta e per intenti non del tutto sottovalutati, ma anzi lasciati a sedimentare per poi esplodere in necessità cosmiche che hanno reso grande un genere che ancora oggi porta con se numerose angolature influenzanti la musica moderna. L’anima dei Virginia Waters è Maria Teresa Tanzilli che abbandonati i progetti passati decide di costruire una band attingendo sostanza invidiabile da altre formazioni locali come dai The Rust and Fury e dagli OH!EH? tanto per citarne alcuni. Il risultato è un rock sbarazzino, altre volte un po’ più cupo in grado di raccontare un lato quasi animalesco, il bisogno di gridare il proprio senso di non appartenenza e quella sorta di potenza post adolescenziale in grado di scardinare gli ordini precostituiti e manipolando a dismisura le carte disponibili, le carte in tavole, con passaggi sonori originali e taglienti tipici di una tradizione che sembra non voler scomparire.

Wops – Il giorno onirico (Autoproduzione)

Copertina di Wops Il giorno onirico

Voci filtrate che si legano indissolubilmente ad un cantautorato di forma e sostanza che si intensifica nell’attimo, nell’attesa quasi mistica e accecante colta da un bagliore sopraffino nel raccontare il viaggio come punto necessario per una maturazione d’intenti che si avvicina all’incomprensibile desiderio, prima di tutto nostro, di far proprie le caratteristiche che contraddistinguono l’animo umano in un bisogno essenziale, spontaneo, di dare vita ad un disco, dopo dieci anni di attività, capace di creare un ponte tra le varie forme interpretative della canzone per come la conosciamo, in un’estasi smisurata che convoglia nel creare ad arte il sogno attraverso la veridicità di canzoni pop rock in grado di contemplare e di cercare una soluzione ai nostri problemi, ai nostri bisogni seguendo continuamente quel desiderio incessante di fotografare il mattino, il risveglio, come fosse istantanea da fermare nel tempo, da assaporare, da reinventare ogni giorno e perché no da vivere fino in fondo.