The wolf and whale – As you walk (Autoproduzione)

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Duo umbro esplosivo che usa sapientemente un miscuglio eterogeneo di strumenti per dare vita e forma ad una musica colorata e tinteggiata per l’occasione da un folk che prende spunto e riferimento dal bisogno sostanziale di gridare la propria appartenenza ad un mondo in continuo cambiamento, una musica che parte essa stessa dalle note cantautorali e si fa sempre presente e motivata quando la gran cassa spinge sull’acceleratore e si fa notare intrecciando strutture e poesie che ben si sposano con strumenti quali armonica, sax e ukulele in un suono che prende spunto proprio dalle affinità del Delta per riappacificarsi e farsi lontana accentuazione in crepuscolari note che guardano con occhi ben aperti oltre la Manica, spostando il baricentro nei confronti di una musica che si fa contesto iniziale ed essenziale per questa nuova avventura, un’avventura che questi giovani ragazzi stanno vivendo. Tra live e premi raccolti la strada è ancora lunga, ma questo è un buon punto di partenza, un buon inizio in cui sperare.

Argo – Argo (Alka Record Label)

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Argo si racconta e approda su di un altro pianeta ad intrecciare arpeggi cosmici a testi che parlano di un malinconico vivere interiore compresso in questa piccola prova, in questo EP che ha le potenzialità, già dai primi fraseggi, di condividere il meglio del rock anni novanta a cavallo con il duemila in procedure non lineari e puntualmente mantenute grazie a quattro pezzi di narrazione sostenuta che sanno variare e si aprono pian piano ad un singolo importante e trainante Polvere di logica, passando per Brucerò, Inutili Ideali e la title track, il tutto attraverso il nichilismo moderno, il tutto assaporando quella sete di conoscenza che campeggia nell’aria e innesta procedure che si fanno concretezza nella ricerca di un porto sicuro su cui approdare e riposare, lontano, lassù, vicino alle stelle, lontano da questa esistenza.

Luca Burgalassi – Windward (VREC)

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Molteplicità di strumenti in campo che trovano una propria e motivata condizione d’utilizzo grazie alla presenza di un bluesman d’annata capace di avvicinarsi a territori legati ad un cantautorato che sa raccontare attraverso le concentrazioni della terra d’Albione senza tralasciare la potenza espressiva degli sguardi che si intrecciano con le parole e con la bellezza delle melodie americane degli anni ’70 in un sali scendi aperto a stesura di nuove forme di comunicazione. Dopo il primo Shadows and Fragments e dopo una passione che si protrae nel tempo il nostro incassa le soddisfazioni del raccolto e rapisce con pezzi come Winter Lady o la stessa title track che disorienta e accende barlumi di speranza, quella che non deve morire, quella sempre presente soprattutto dopo le numerose collaborazioni del nostro ad indicare la via e il sentiero da percorrere, con lo sguardo rivolto all’insù e pensieri di volontà che non accennano a scomparire.

Fabrizio Pocci e il Laboratorio – Una vita (Quasi) normale (VREC)

Fabrizio Pocci è cantautore in blues che si abbandona alla bellezza delle cose semplici che possono capitare, l’importanza nel definire l’essenza del momento in istantanee poppeggianti e di sicuro effetto coadiuvate da refrain che entrano facilmente in testa e lasciano inseguire i pensieri in un vortice di sentimenti e sostanze positive, accompagnando un suono importante e ben calibrato grazie alla presenza, in veste di produttore artistico, di Erriquez della Bandabardò, della chitarra di Finaz in In fondo è facile, e la voce di Jole Canelli nell’interpretazione di Se stasera sono qui di Tenco senza dimenticare il super ospite Bobo Rondelli che duetta nel primo singolo del disco E ci sei tu. Fabrizio Pocci da vita ad un teatro di quotidianità che arriva a delineare un quadro semplice, a tratti intimista, di passioni e comunione d’intenti, si pensi a Io non ti scorderò o a Sfumature, all’importanza del ricordo e al senso totale della vita stessa alla ricerca di Una vita normale con al centro proprio quelle esistenze di tutti i giorni, vissute fino in fondo e pronte ad esplodere seguendo il corso delle stagioni, seguendo il corso dei giorni e dei sogni che stanno sempre dietro l’angolo.

Mistonocivo – Superego (VREC)

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I Mistonocivo dopo una vita sono tornati, sono tornati dopo sette anni da quel Zerougualeinfinito uscito per Halidon e li ritroviamo maturi, coesi e sinceri, tra orpelli elettronici di genere che ben si sposano con la forma canzone impressa in parole lucide capaci di parlare a noi e al nostro tempo in un’introspezione definita e notevole capace di assalire in scatti fulminei di rabbia compressa per tornare a farsi cullare portata via dalla corrente. Un disco che porta con sé il sapore delle cose migliori questo, un album che non è pura e semplice foga e urgenza di dichiarare, di dire, ma è piuttosto un excursus interiore che si abbandona a stati d’animo penetranti e coinvolti, tra l’abbandonato e il ritrovato, scavando nell’interiorità di band come Radiohead e Muse degli esordi quelli di Showbiz e Origin of Simmetry per internderci, accostando l’alienazione alla paura di morire, il bisogno di uscire dal labirinto della ragione e la costante ricerca di sopravvivere in questo mondo sempre più autoreferenziale. Da Arpa, il super singolo, passando per la bellezza di Anima fino al gran finale di Circofante i Mistonocivo sono e saranno sempre sinonimo di qualità guadagnata e incisa.

Skymall Solution – Skymall Solution (VREC)

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Abissi aperti per il gruppo romano che incasella perfettamente la lezione di tutto quel post grunge sorto dalle ceneri dei primi anni ’90 per confezionare a pennello un disco ben suonato e vissuto, stratificato e coeso, creante continuità con uno spirito, un punto fermo, un cardine in grado di approfondire il passato lasciando in disparte le tendenze e toccando vertici di alto lirismo alternative americano tra Deftones, A perfect Circle, Staind e Tool, un sodalizio energico che non perde di originalità e cerca di ricavarsi un porto sicuro dove poter approdare con canzoni simbolo/singolo come Cold war o Touch me senza dimenticare lo spessore di Running Reflection o di Eyes in un suono dolce e nel contempo aggressivo, tecnico e sospeso, puntuale e mai banale dove l’apoteosi sembra sempre essere lì in procinto di prendere il sopravvento, ma nello stesso tempo si affievolisce in attimi meditativi in un moto ondoso che non trova pace.

Kadìma – Il giunto di càrdano (Autoproduzione)

Delay introspettivi in grado di mantenere una certa costanza di fondo nel ricreare in modo obbligato e rasente al suolo un costrutto emozionale che evapora pian piano e si lascia a suoni atmosferici in grado di far parlare di sè e permettendo al lavoro che avanza di interagire con una cultura musicale proiettata nell’abisso degli anni 2000 tra riferimenti più o meno accentuati dove su tutti spunta l’aurea mistica di band come Verdena ai tempi di Solo un grande sasso o di In Requiem per una proposta ricercata e ben suonata, una proposta che la band di Foggia sa contemplare e sa vivere tra l’onirico e il disilluso, il mondo in trasformazione e il tempo causa del nostro vivere dove le spruzzate corali di elettronica sono un utile pretesto per cercare nelle parole stesse un significato profondo di vita vera e vissuta, dall’intro abrasivo fino a Radis, passando per il singolone Bacio di Giuda i nostri si destreggiano in un universo in grado di garantire concretezza e poesia grazie ad una proposta volonterosa nel ricercare una propria strada da seguire.

La Madonna di MezzaStrada – Crono (La Fame Dischi)

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Paesaggi sonori cupi che si aprono pian piano verso un cantautorato di stile eccentrico che amalgama la lezione del prog per intersecarsi in modo naturale con un folk condito da spruzzate lisergiche di assoli d’arco per un post rock dove le parole diventano poesia e dove l’affascinante uso di sintetizzatori e importanti passaggi cosmici da vita ad un excursus sul tempo e sulla sua molteplice ineluttabilità, toccando argomenti metafisici con la passione di chi, al terzo disco, ha tutte le carte in regola per rientrare in quella cerchia di band che sanno suonare, ma che sanno anche usare le parole.

Bellissima la traccia d’apertura Albero che via via apre la propria chioma in modo da far scoprire un paesaggio di colori che passano dal rosso al verde, toccando il blu e le moltitudini di necessità che guardano il cielo in Dirigibili e atterrano nella vita di tutti i giorni con Cesare per una compiutezza che ritroviamo nelle poche parole di Crono, outro visionario di pregevole effetto.

Un disco da scoprire che mi auguro sia un passaggio essenziale per una band che non ha mai smesso di cercare la propria strada tra le moltitudini di percorsi presenti, con coraggio e determinazione, con fame d’aria e parole nuove.

Julie’s Haircut – Invocation and ritual dance of my demon twin (Rocket Recordings)

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Visione obliqua di un mondo ancestrale e compenetrante con chiare espressioni di tempo che si amalgamano intensamente a ristabilire forme sonore che attingono ispirazione da generi e mescolanze in un cerchio che continua di prepotenza la propria fase motrice e assapora in modo del tutto arcano rituali e invocazioni fino all’esplodere dolce della marea  soffocante.

I Julie’s Haircut sono tornati e in questo loro settimo album si abbandonano ad esplosioni sonore capaci di racchiudere la bellezza di una musica che coglie il respiro internazionale e prosegue la sua ricerca allargando gli orizzonti e gli eventi circostanti fino a conglobare l’insieme delle astrazioni cosmiche ottenute in un sodalizio che si fa naturale proseguimento del predecessore Ashram Equinox per spunti di difficile catalogazione, ma che seguono un percorso di post rock mescolato alla psichedelia lisergica e al cantato che lascia spazio alle visioni tormentate di un mondo in declino da Zukunft fino a Koan passando per quella Gathering Light, già singolo di presentazione e i voli pindarici di Deluge e Cycles a rafforzare l’idea di continuità e totale abbandono nei confronti di un bisogno di rappresentare il mondo in cui viviamo attraverso un canto lontano frastornato dalla potenza sonora di una musica sospesa.

Pin Cushion Queen – Settings 3 (Autoproduzione)

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Siamo arrivati alla fine di un percorso caleidoscopico, di una trilogia in evoluzione, lontana anni luce dalle regole di mercato e pronta ad entrare nel mercato stesso per cambiarne regole e soprattutto punti di vista, lontano da mercificazioni e suadenti contratti, ma piuttosto vicino ad un originale percorso d’avventura musicale che prende il sopravvento grazie a forme desuete e sperimentazioni già narrate qui, su queste pagine virtuali e che ora volano verso un finale che è forse chiusura o forse spazio che si comprime, chiudendo in qualche modo il cerchio aperto e nel contempo osservando un buio sempre più presente con quegli occhi che hanno e che vedranno ancora tanto, da sfondi cinematografici a territori deserti il trio bolognese grazie a The Tunnel, l’articolata Backward Future e il finale lasciato a Wachosky si immola a dare un senso sempre maggiore alla proposta in questione, tendendo la mano all’infinito e abbandonando i pensieri a nuove scoperte future.