MUTO – Independent (Prismopaco Records)

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Viaggio nello spazio profondo alla ricerca del beat giusto il beat perfetto in un anfratto stilistico che ricava la propria dimensione, la propria dimora attraverso le costellazioni e il buio in un divagare senza meta che costringe l’ascoltatore ad entrare in una purificazione fatta di luce e ombre misteriose, tra le compenetrazioni dei momenti e gli abbagli della vita quotidiana, per questo progetto di suoni e molteplicità che avanza, un nuovo disco che si fa percorso all’interno di una società automa alla ricerca del nostro essere veri e reali, esseri indipendenti e capaci di conquistare quelle piccole parti di vita che in verità ci appartengono fino nel profondo, per un album fatto di otto incursioni paranormali che rendono meno sfocata quell’idea di musica che si fa mezzo per comunicare attraverso ogni latitudine terrestre, un viaggio elettronico in balia del vento e del mare tra isole da conquistare e porti/canzoni in cui riposare.

Trauma forward – Scars (Autoproduzione)

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Colonne sonore orrorifiche che si stagliano a bucare il telo di proiezione e incasellano componenti mistiche e subalterne in grado di costruire architetture cosmiche che si affacciano alla sperimentazione degli anni ’70 infischiandosene totalmente di un possibile seguito, ma intessendo, con cura maniacale, un progetto connotato da forte intenzioni e sicure soddisfazioni inglobate in sintetizzatori futuristici che prendono parte al gioco di ombre e luci che i nostri hanno saputo dipingere mettendo in campo una forte dose di capacità stilistica non vincolante e afferrando idee di avanzamento cronologico che collimano al suolo e intercettano i malumori di una società qui proiettata sotto forma di suoni e grandezze, ampiezze d’onda e nuove forme di reinterpretazione a destinare un bisogno nella conformazione atipica di questa suono capace di conquistare e interpretare un malessere generalizzato che espande le proprie ambizioni oltre i confini dell’abisso e da come risultato un punto di vista originale e vissuto nel concetto stesso di opera.

Jumping the shark – Amami (Bananophono)

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Album diretto caratterizzato da suoni viscerali in grado di contemplare bellezza in riff nostalgici delle migliori produzioni degli anni duemila invertendo la rotta e consegnando potenza sostanziale ad un power duo che intensifica e affina la tecnica per consegnarci una prova senza fronzoli e impreziosita da una maturità conseguita con il tempo e nel tempo capace di conquistare palchi polverosi e sogni da destinarsi in un approccio diversificato da sovrastrutture letterarie e musicali che si fanno poesie distorte e di pregevole fattura valorizzando una maturità raggiunta e un primo piano messo a fuoco tra i parallelismi di Dimmi quando verrai a casa fino al fade out di Scomparire, passando per concentrati di vita in Vera show e Marilù a ricoprire pezzi di noi, speranze e illusioni urbane, tra l’orecchiabilità della canzone pop e l’intensificarsi di un rock che sa di internazionalità ricercata, ambita e compressa fino alla potenza del gesto e del suono che vive di vita propria e non ci abbandona.

The dust – The inner side (Autoproduzione)

Concezioni sonore di opere che vanno oltre l’idea di tempo per come lo conosciamo e intensificano una gamma di colori che si stagliano in una musica assurdamente bella e ricercata che a sorpresa si immola nell’universo pop pur rimanendo underground fino in fondo accentuando riprese e chiarificando la strada da seguire in concentrati paradossali di lirismo coscienzioso in grado di vagheggiare  e sorprendere prolungando una forza interiore che ben si orienta e si caratterizza in canzoni che sono la summa del rock degli anni sessanta/settanta, in modo eccentrico, eclettico e sfrontato, dove il glam rock è di casa, tra incursioni alla Freddie Mercury e un contesto visivo che entra di prepotenza in un primo piano ambizioso che crea di per sé un’antologia di colori e una soppesata armonia di fondo capace incessantemente di valorizzare un pensare comune che di per sé è un viaggio che prosegue dal 2001 e che in questo sesto disco getta le fondamenta per relazioni filosofeggianti che vanno ben oltre l’etere precostituito, vivendo di vita propria come opera d’arte iridescente e mutevole.

Tagua – Sincronisia (Autoproduzione)

Rock tradizionale accompagnato da riff concentrici e di sicuro effetto capaci di penetrare la carne e stupire per originalità messa ad arte ed esperienza di fondo che non lascia nulla al caso, non lascia nulla alla banalità ma piuttosto si fa strada costantemente alla ricerca di un appiglio che tiene in vita e che ci fa respirare il tutto in una formula certo rodata, ma che in questo disco acquisisce particolare freschezza riuscita in grado di deframmentare l’etere in numerose particelle e assegnando a queste un nome e una diversificazione importante che si apre con Sincronisia per approdare a territori introspettivi, ma relazionali come in pezzi degni di nota da Immagini simboliche fino al finale Goccia passando per la bellissima ballata d’effetto Carillon dove arpeggi chitarristici si affacciano all’ineluttabilità del tempo che ci siamo lasciati alle spalle, raccontando anche un po’ del tempo che verrà, di ciò che ci ingloba e ci rende partecipi di un tutto che grazie ai Tagua trova nuove forme di espressione rimescolando le carte in tavola e donando freschezza a proposte che sembravano perse nei meandri di un mondo lontano.

Piet Mondrian – #dichestiamoparlando (Borgo Allegro/Regione Toscana)

#dichestiamoparlando è un disco triste nella sua accezione positiva, è un disco riflessivo, autentico e mai generalista, capace di citazioni e punti critici che si rifanno ad una tradizione cantautorale e musicalmente si lascia sovrapporre a costanti ricerche musicali sperimentali capaci di apprendere la lezione del tempo per dare vita ad uno stile poco copiabile, ma del tutto personale merito delle scelte stilistiche certo, ma merito anche della capacità inimmaginabile dei Piet Mondrian che in questo loro nuovo lavoro si fanno più sofisticati, abbandonando in parte una certa aurea di minimalismo e incontrando l’elettronica ben integrata e amalgamata nei tesi mai banali, un’elettronica che si sposa ad integrare con un quadro di pura poesia che in parte abbandona la forma canzone per farci entrare in un mondo del tutto pensato per raccontare stati d’animo, impressioni, momenti di rara intensità come nella traccia d’apertura Te ne vai, forse il momento più alto di tutto il disco dove incrociatori pop si intersecano in modo efficace alle parole di autodistruzione e autoanalisi per planare verso universi concentrici come in Derrida o Un dio ovunque a manipolare una prova dove Michele Baldini, Francesca Storai e per l’occasione anche Diego Dada si fanno portatori autentici di uno stile che non segue le mode del momento, ma è alla continua ricerca di un’autenticità di fondo davvero invidiabile ai giorni nostri.

Espana Circo Este – Scienze della maleducazione (Garrincha Dischi)

Disco critico e proiettato nel mondo della mercificazione dove la protesta degli Espana Circo Este si fa sentire vomitando al suolo parole soppesate e nel contempo di pura energia vitale che ci fa in qualche modo entrare in un universo diverso e possibilmente autentico, criticando in maniera sovversiva i così tanti soprusi che caratterizzano la nostra società, la inchiodano al suolo e non le permettono di entrare in contatto con una realtà tangibile e mutevole.

Gli Espana Circo Este sono tornati e in questa loro seconda prova si respira un’autenticità che fa ballare, loro primo e indiscusso marchio di fabbrica, un ballo che si fa riflessione e inno alla non troppa leggerezza, un guardarsi dentro in qualche modo, guardare alle imperfezioni come punto di svolta permettendo all’ascoltatore di superare barriere prima insormontabili.

Sono dieci tracce per questo suono punk contaminato, un po’ zingaresco e un po’ tangheggiante che esprime la massima ambizione poetica in Dammi un beso e si proietta nelle sperimentazioni di Gabriel PT1 e Gabriel PT2 per sodalizi di un’altra terra polverosa in cui vivere per sentirsi finalmente a casa.