Liede – Stare Bravi (Costello’s Records)

Cantautore che cavalca la moda del momento in bilico tra Carnesi e I cani in grado di scrivere canzoni poppeggianti che descrivono l’attimo, il vissuto, la narrazione continua di una vita al cinematografo che irrompe nelle quotidianità per poi ritornare alla coerenza di un tutto, al disilluso vivere, senza misteri, senza cieli con fuochi artificiali, ma canzoni che sono quasi un diario di una giornata tipo che coglie, per certi aspetti, il vivere dentro ai confini della nostra Italia, dove i sogni sono bloccati da un tutto che rende difficoltoso l’esistere, quell’esistere che a pensarci bene è raccolto nelle frasi semplici di questa prova: frasi ad effetto, succulenti tormentoni, che alzano il tiro nelle bellissime Finte intellettuali o Una fine diversa, a rincorrere il tempo perduto, sapendo benissimo che ciò che è stato non può ritornare. Tra acquarelli pop elettronici e una velata malinconia il nostro Liede centra il bersaglio del lo-fi da cameretta per una prova ben composta e ben suonata che regalerà, a mio avviso, delle importanti soddisfazioni future.

Mantovani – Sogni lucidi (Autoproduzione)

Viaggi cosmici interiori che ci portano a scovare attraverso il tempo una parte vitale del nostro continuo divenire in grado di portarci a correre lungo sentieri inesplorati, sentieri nascosti, perpetuati dal singolo momento e dalla costante ricerca di una bellezza interiore che si fa arte proprio in queste canzoni, pezzi di noi del nostro passato e del nostro divenire, incrociando il cantautorato di decenni fa con qualcosa di più prezioso, qualcosa di più concreto e cioè la ricerca di una nuova via che riesca ad andare oltre alle nuove forme d’autore per immolarsi come ponte tra passato e futuro, per nove canzoni che hanno il sapore delle cose fatte bene, il sapore di un viaggio eccitante, un viaggio che si concretizza con Andrea Viti, ex bassista degli Afterhours, l’aggiunta della stratificazione emozionale e sonora di Fabio Mercuri alla chitarra, uscito da poco con un disco personale e davvero notevole, da Alex Canella alla batteria, Alessandro Rossi alle percussioni, Simone Rossetti Bazzaro alla viola e violino fino a Silvia Alfei ai cori e co produttrice dell’intera opera.

Da questo disco ne esce un suono curato e riscoperto in trame fitte e sospese, ricordando un Franco Battiato dei tempi migliori, in sperimentazioni d’autore che hanno il gusto e la capacità intrinseca di donare linfa vitale ad un genere da riportare nelle orecchie di tutti, per sogni lucidi e pezzi onirici di un’esistenza cangiante.

Bad Dinosaur – Bites (Autoproduzione)

Risultati immagini per bad dinosaur bites bresciaQuattro ragazzi provenienti da un’altra epoca che si inerpicano su di un palco poderoso a suon di rock e belle speranze tra attese e rimpianti, ma soprattutto con tanta energia che si respira nell’aria, che si capta nella condizione esistenziale del momento e nelle bellezza della genuinità della proposta caratterizzata per schiettezza nelle stesura dei testi e nelle capacità diretta di dare un senso ad un filone di ribellione che coinvolge abbracciando il bisogno del sound post ’70, Clash su tutti, con qualcosa di più moderno e accattivante per un piccolo disco, un Ep, cinque tracce che vedono il gruppo bresciano sperimentare perfezioni analizzate dalla ruvidità, dall’alchimia necessaria nel ricreare di getto pezzi come Nothing to tell o la riuscitissima Napoleon is the cat, quest’ultima episodio più importante del disco, per un lavoro smussato a dovere, un suono primitivo, agli albori, quel suono preponderante e unico che fa muovere il corpo, senza domandarsi troppo, un suono intriso di sane vibrazioni continue.

Elk – Ultrafan sword (Niegazowana Records)

Band inclassificabile per gusto musicale egregiamente sopraffino che non si ferma alle apparenze, ma suda ricerca condivisa in momenti di pura allucinazione spaziale e ben amalgamata con un tutto che sorprende imbrigliando attimi di luce eterea in altri momenti più drammatici e introspettivi capaci di ridare un senso ad una produzione alternativa che spicca per bellezza dei suoni e costante bisogno di abbandono e ritorno, tra The National incastrati a Placebo che riflettono le concezioni astratte di David Sylvian in un viaggio allucinante senza ritorno che ben si apre con M.Dugall, per proseguire la corsa con The Thaw passando per Tu Fi Pu fino a raggiungere le rare intensità di What’s below, per un album, questo degli Elk, che racconta di invasioni aliene e di mondi dominanti, alla luce però di un’esaltazione di fondo che proprio in questa musica stratificata ricopre un ruolo dominante e soprattutto una sfida per attendere un futuro diverso, un futuro forse complementare, fatto però di sensazioni da vivere e farsi vivere, prima che sia troppo tardi, fino all’ultima luce dell’ultima stella che potremmo ancora vedere.

PHIDGE – Paris (Riff Records)

I Phidge sono tornati regalando orpelli parigini di matrice indie rock che si sposano molto bene con l’alternative d’oltremanica in un disco che regala una certa omogeneità di fondo e fa percepire, in modo comunque distinto, la gamma cromatica di esasperazioni musicali che trasportano, rincorrono e si fanno vivo scorcio nel creare un impatto vorticoso e avvolgente, ricordando per certi versi i Placebo e tutto il rock post duemila, in una ricerca sostanziale della bellezza musicale e armonica che ben si amalgama in queste dieci tracce di Paris, estendendo la quotidianità oltre le apparenze e immagazzinando staticità sulfuree in pezzi che via via si aprono da (Do We?) fino a Thin passando per le riuscite The mouth of love e Memories per citarne alcune, in un disco che sostanzialmente non spicca per singoli impattanti, ma piuttosto ricopre un’essenzialità di fondo che nella costruzione geometrica di un tutto rimane imbrigliata a favore di un sentire comune percepibile e ben soppesato.

Gianni Venturi/Lucien Moreau – Moloch (Autoproduzione)

Duo straordinario che ammalia e incolla all’ascolto grazie a poesie crepuscolari che si affacciano al 2.1 in cui viviamo, stravolgendolo e schiaffandoci in faccia una realtà senza giri di parole o questioni astratte da percepire e di cui parlare, un disco a pugno chiuso emozionale quanto basta per gridare al miracolo, in questa era sterile e omogenea, quasi disadorna di un sentire comune che dovrebbe invece essere percepito in tutta la sua massima potenza.

Gianni Venturi e Lucien Moreau ci fanno entrare nel loro mondo fatto di disordini cosmici musicali che accompagnano poesie di rara intensità, nella bellissima impresa di ricreare un post band CSI all’interno di 1984 ambientato nei nostri giorni, dove la globalizzazione è segno di inciviltà e dove il terreno fertile per far crescere la natura, quella vera, se di natura vera possiamo parlare, esiste al di là del nostro vivere, ma è ancora vicino a noi alla portata del nostro costrutto esistenziale, in una protesta musicale che ingloba anni di storia in un disco magnifico e di rara introspezione, un disco non da ballare, un disco da ascoltare per essere migliori.

Blade – Uno dopo l’altro (SkillZone Records)

Disco protesta che parte da una collettività non condivisa dove il suono della strada abbraccia e avvolge fino a compiere un salto nel vuoto del nostro tempo per dare agli ascoltatori la possibilità di far proprio un concetto esistenziale che dovrebbe essere alla portata di tutti, un concetto che travalica utopie e cioè quel desiderio di vedere la vita attraverso nuovi punti di vista, raccogliendo l’eredità del passato e soprattutto quella del presente, parlando alla gente e narrando fatti che ci toccano densamente e come un pugno allo stomaco non possono lasciarci indifferenti.

Blade è tornato e con questo nuovo disco, il primo da solista, le esperienze passate si fanno apertura ad una sostanziale ricerca fatta di collaborazioni, leggi Etna Riot, per impreziosire una proposta fatta di molta sostanza e condivisione, di un’apertura che possiamo percepire da La mia realtà fino al gran finale in Nuvola, tra la magnifica title track e quella Sfida i demoni che forse racchiude il senso di tutto il disco, in una metafora emblematica della nostra società che chiede e non da e si concentra sui pochi senza dare voce ai molti e questo Blade lo sa bene ritagliandosi, di diritto, un posto nel rap nostrano d’eccellenza.

Giuliano Clerico – L’uomo tigre ha fallito (I&I STUDIO di CLAUDIO BOLLINI)

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Racconti di vita tutt’altro che idealizzati, ma ricoperti, a pieni polmoni, di quella fuliggine nera che imbriglia le periferie delle città e sovente lascia poco spazio al futuro, racconti di vita vissuta, tra aspirazioni e illusioni del momento dove chi poteva fungere da nostro salvatore, alla fine dei conti ha fallito, si è decomposto e non ha lasciato traccia, se non nella sostanziale ricerca utopistica di un mondo diverso in cui vivere, un mondo diverso in cui poter abitare, solo a livello onirico, solo nei nostri pensieri.

Giuliano Clerico spiega benissimo tutto questo all’interno delle sue strampalate canzoni che parlano con voce reale, con la voce di chi ha vissuto e ha sperimentato, tra ricordi, testi al limite e bisognosa necessità poetica di incamerare l’attimo in una ricerca costante di un divenire cantautorale che ben si amalgama con pezzi come Le scimmie o Vecchie foto e denti rotti, passando per la title track e quella Sotto undici stelline che si riappropria del perduto attraverso una vendetta che fa da contorno ad un futuro irrealizzabile.

Un disco, questo, che racconta in modo distinto ed elastico le peripezie del nostro tempo, un album che sussurra in modo del tutto naturale un bisogno d’aria nuova da qui all’eternità.

Fulvio Bozzetta – Metabolismo Lento (Lademoto Records)

Disco che sorprende per aspirazioni e punti di svolta, che butta a terra stile diversi e cangianti in grado di trasmettere sensazioni temporali che vanno ben oltre il nostro sentire condiviso, un album, quello di Fulvio Bozzetta, che nasce e cresce dopo numerosissimi anni di latenza, un primo lavoro a 67 anni, per ribadire che non è mai e proprio mai troppo tardi per dare alla luce un insieme di canzoni che colpiscono per maturità cantautorale che va ben oltre gli stereotipi moderni, coprendo una parabola ascendente verso il passato, quando ancora esisteva chi comunicava, attraverso la musica, un messaggio, un pensiero dando un volto a chi volto non ha.

Nella musica di Fulvio troviamo Paolo Conte, troviamo Finardi, Paoli e Fossati, troviamo quel bisogno di andare oltre le apparenze consegnando agli ascoltatori un disco che abbraccia le melodie del mondo, dal tango, al blues, passando per il rock in una costruzione contesa di energia e melodia alla ricerca di un disequilibrio che si pone proprio all’interno di questa società, dodici pezzi di amore, di morte e disillusione, dodici canzoni di così rara intensità da rimanere abbagliati.

Mattia Caroli & I Fiori del Male – Fall from grace (TimezoneRecords)

Disco soppesato a dismisura che trasporta l’ascoltatore nel convergere la bellezza di fondo racchiusa in questi pezzi che si stagliano all’orizzonte e, come quadri dipinti, vivono di vita propria, portando con sé una propria anima, mescolando citazioni letterarie ad ambientazioni legate alla vita di tutti i giorni per concentrati di amori perduti che affondano nella notte dei tempi e perseverano nell’incedere, nel trovare un punto di contatto, un punto sostanziale di meraviglia, la stessa meraviglia che possiamo ascoltare in canzoni che gravitano tra levitazioni di indie folk rock e blues in una spasmodica ricerca dell’originalità in un mondo musicale saturo di proposte.

I nostri dopo questa prova ne escono vittoriosi, capaci e carichi di quella bellezza essenziale che fa innamorare al primo ascolto e rende bene l’idea di album costruito e pensato non per durare un giorno, ma per tracciare un solco alquanto indelebile nell’era delle produzioni moderne, tra passato e futuro troviamo Mattia Caroli e i suoi Fiori del male, ad incidere minuziosi paesaggi sonori che colpiscono al cuore e ci trasportano con la testa lontano, tra le nuvole.