Fabrizio Tavernelli – Fantacoscienza (Lo Scafandro)

Anfratti crepuscolari di un universo d’autore che si stagliano nella coscienza a riformare una parte di noi che si è persa nel buio, a riformare un bisogno esistenziale di cura verso ciò che stiamo perdendo, una fusione tra spazio e subconscio che mira a comprendere le ardite sperimentazioni della nostra mente che si protraggono da qui all’eternità in un circolo senza fine, mirabile e strutturato che va oltre il cantautorato, rendendo la proposta di Fabrizio Tavernelli, attivo già dagli anni ’90 con AFA, CSI, la creazione del progetto Materiale Resistente, passando per Duozero, Groove Safari, Ajello e Babel, una proposta dal sapore personale e soggettiva che interseca la poesia e la letteratura, passando per il cinema e dando vita a sperimentazioni sonore che si fanno veicolo per nuove malinconie postmoderne  e esistenzialismo elegantemente conclamato e atteso, ritrovato e inglobato, un mirare il cielo da nuovi punti di vista, verso l’ignoto, verso ciò che non conosciamo, capire la fine per comprendere il principio, in un’eterna attesa che si dimostra essere parte integrante di noi, tra lo sprofondare negli abissi e quella cura nel particolare che spesso paga, spesso dona soddisfazioni, per attimi di luce che possono durare solo il tempo di un abbaglio, un abbaglio però che sa ancora di speranza.

Cappadonia – Orecchie da Elefante (Brutture Moderne/Audioglobe)

Il mastodonte, il pachiderma, l’elefante e la continua ricerca nella trasformazione, nel bisogno essenziale di non essere più gregario, ma di far crescere un disco completamente proprio, completamente vivo e suonato, che si interroga, grazie a costrutti esistenziali e grazie anche ad un’immediatezza che confeziona pezzi orecchiabili, mescolando la musica d’autore con le sonorità d’oltre manica e d’oltreoceano, incrociando gli Snow Patrol e quella capacità che rende i suoni rock e folk più malleabili e interessanti, arricchiti da un substrato di arrangiamenti che farebbero invidia a qualsivoglia produzione moderna, arrangiamenti nati dall’incontro e dalla collaborazione di Alessandro Alosi de Il Pan del diavolo e alla presenza di ospiti come Nicola Manzan e Gianluca Bartolo per un album che non conosce territori inesplorati, ma piuttosto si inerpica come presa di coscienza nei confronti dei giorni che verranno.

Nove tracce in tutto che si aprono con la bellissima e desertica Orecchie da Elefante per passare velocemente alla leggerezza di Mani di velluto e a quella Lontano che è quasi la summa del disco per finire con Ventisei per una semplicità che chiude e abbaglia.

Un piccolo gioiello nel panorama musicale dei giorni nostri, un cantautore che ha raccolto le esperienze del tempo per aprirsi ad una nuova era che lo vede protagonista, tra ballate memorabili e quel sapore malinconico che ha fatto scuola e segna indissolubilmente la strada per il futuro che deve arrivare.

Bifolchi – Mi fai schifo ma ti amo (Audioglobe)

Si raccontano le storie di tutti i i giorni in questo disco e le contraddizioni di una società malata, il dare e il ricevere e la nostra capacità che si esemplifica in un’incomunicabilità che porta l’individuo sempre più ad isolarsi con i mezzi di non comunicazione, facendolo sentire come dentro ad una gabbia priva di vie di fuga e lontano da una scelta, in primis, di condivisione futura.

I Bifolchi al loro secondo lavoro, dopo solo un anno dal precedente Diario di un vecchio porco, ci regalano un disco immediato e sicuramente riuscito, formato da canzoni scritte durante il tour precedente e spruzzate di quell’energia contagiosa che fa ballare, divertire e pensare, una capacità quasi istintiva di entrare in comunione con l’ascoltatore, allacciando i legami, i rapporti e valorizzando il minimo gesto per essere sicuri delle proprie capacità e dei propri risultati.

Un album che vede la partecipazione di molti musicisti della scena maremmana/livornese da Francesco Ceri dei I matti delle Giuncaie a Fabrizio Pocci fino a membri dei Malamanera passando per Lelio e Davide Michelini dei 21 grammi per arrivare a Riccardo Nucci de La bottega del ciarlatano.

Sono otto tracce che vanno in controtendenza con il messaggio ironico e volutamente sarcastico del titolo del disco, una comunicazione esemplificata alla realtà, quella dei Bifolchi, che dona condivisione e richiede bellezza e sostanza, un’unione che fa la forza è proprio il caso di dire, un’unione che rende più semplice la realizzazione dei sogni migliori.

I Goldoni – Il mondo è bello perché è avariato (Autoproduzione)

Ritorna il percorso sonoro iniziato con Il diversivo, per la band proveniente da Aprilia nel Lazio, il trio ironico e istrionico senza peli sulla lingua per eccellenza ci regala un nuovo disco che ci catapulta attraverso gli orrori e gli errori di questa società dove le canzoni sono intervallate da dialoghi al limite dell’immaginato anche se purtroppo del tutto reali per testi intrisi di quella capacità nel raccontare le storie di ogni giorno, le storie di tutti noi, scoprendoci esseri al limite di comunicazione e sostanza, scoprendoci purtroppo troppo umani per poter sperare in cambiamenti repentini di questa società.

Un album che miscela senza problemi il rock alla musica d’autore, passando per il funk e il blues, rimarcando l’essenzialità della proposta virata più sui contenuti che sulla forma, partendo con le paranoie dell’Università e giù giù fino a Dentro ai cessi dei locali, che è pezzo capolavoro contenente la frase simbolo che da il nome al disco; un insieme di colori brillanti tenuti insieme dalla voglia di divertirsi, forse questa è la formula dei nostri, che con facilità e immediatezza si guadagnano un posto di genere nelle produzioni italiane, così poco propense, solitamente, a ironizzare su se stesse, per un disco questo, che fa del suo prendersi poco sul serio un’arma sicuramente vincente.

Dario Margeli – Mente (Autoproduzione)

Viaggio verso mondi lontanissimi che sono specchio della nostra anima in una continua ricerca sostanziosa e sostanziale di paesaggi mistici ed elaborati che attraverso parole che parlano direttamente al nostro cuore, si concentrano sulle profondità che ancora devono essere svelate, per guardare con occhi nuovi un mondo che ci circonda, per guardare con un senso diverso l’attimo fuggevole che potremmo in qualche modo cogliere e fare nostro.

Dario Margeli è un poeta atipico, che incontra le geometrie di Battiato e Sgalambro mettendo in energia rock contesa e vissuta un’elettronica sotterranea, ma ben studiata, che evidenzia un timbro vocale alquanto strano, ma originale e che denota un’inflessione americana, dovuta ai trascorsi negli States caratterizzata dall’incedere energico dei brani che filosofeggiano sul nostro vivere quotidiano, tra buddismo e domande sul vivere quotidiano, intersecate da un funk e un blues che si rincorrono tra i pezzi proposti.

Un album che dedica la sua parte finale ad un remix  dei primi pezzi presenti, ad aggiungere qualità e spessore alla proposta già di per sé originale, per un incontro con la nostra parte più nascosta che ha il sapore delle buone cose, quelle che rimangono, da assaporare nei nostri viaggi cosmici, giorno dopo giorno.

Green green Artichokes – Treasure Hunt (Indiemood)

13162402_1094776287256386_1714717622_nLa caccia al tesoro è partita, pronta a riservarci nuove e gustose sorprese, in cerca di nuove sperimentazioni ed esperienze, in cerca di un motivo e un’esigenza che ci permette di far musica, senza chiedersi troppo e soprattutto custodendo l’ideale di libertà che caratterizza questo pazzo duo, i Green green Artichokes di Padova, che per l’occasione ci regalano un disco fatto principalmente di sostanza sonora, non legata tanto agli orpelli, ma all’essenziale, che si denota già nella ridotta formazione a duo, chitarra e batteria, per un indie rock da scoprire e amare.

Non serve altro, come dicono loro, la forza è racchiusa nelle canzoni e in questo album  non mancano di certo, è un’essenzialità che scava nell’indie pop ben congegnato, che unisci con un filo sottile Blur, Travis e Starsailor per pezzi che si dipanano tra cantautorato intimista e aperture chitarristiche più brillanti, partendo con Be an alien fino a A bottle in the sea, un messaggio forse di speranza o forse un pezzo del nostro tempo racchiuso dentro ad una bottiglia trascinata dalla corrente?

Paolo e Stefano confezionano una prova che ha il sapore degli anni ’90 e la capacità di restare reali, nell’essenzialità della proposta, la strada è ancora lunga, ma iniziare il cammino è necessario, tra le insidie del tempo e la luce di domani.

Francesco Boni – SHOEFITI (GTL Produzioni)

Camminare e camminare lungo strade sospese su colline verdeggianti o tra gli anfratti di una scogliera a picco sul mare, lontana dal tempo, lontana da tutti, assaporando il momento e quella musica che accompagna le nostre peregrinazioni giornaliere in cerca di un buon sostentamento per la nostra anima.

Tutto questo è il nuovo disco di Francesco Boni, bassista, contrabbassista di Finale Emilia, che per l’occasione trasforma l’idea del viaggio in un percorso sonoro fatto di immagini e sensazioni, coadiuvato in studio da musicisti eccezionali che si intercalano tra jazz e rock, passando per la musica dell’est Europa e assaporando le rotte marittime del Mediterraneo per un suono che abbraccia i popoli e accoglie, un immaginario fatto di sogni, speranze e capacità espressiva elevata che ci porta a conoscere ciò che non conosciamo, attraverso la musica, attraverso la sostanziale ricerca di un qualcosa, Shoefiti per l’appunto, i graffiti di scarpe, una fotografia immobile del tempo che annuncia il passaggio  verso un mondo nuovo, diverso, il diventare adulti lanciando le scarpe oltre il filo che ci teneva legati ad una vita lontana: il cambiamento.

Di cambiamento quindi parliamo in questo disco, sono tredici tracce strumentali e due cantate, pezzi che non hanno bisogno di essere incasellati in compartimenti stagni, ma piuttosto hanno un’esigenza, quasi mistica, di riunire in un solo momento le esperienze accumulate in una vita intera.

-FUMETTO- Wish you were here/Syd Barrett e i Pink Floyd – Danilo Deninotti/Luca Lenci (Edizioni BD)

Wish You Were Here - Syd Barrett e i Pink Floyd

 

Titolo: Wish you were here/Syd Barrett e i Pink Floyd

Autori: Danilo Deninotti/Luca Lenci

Casa Editrice: Edizioni BD

ISBN: 9788868832919

Prezzo: 13,90€

 

 

Parlare di un genio indiscusso dell’arte a tutto tondo non è sempre facile, non è sempre immediato e d’altro canto è sempre difficile entrare nella mente di chi vive situazioni, esperienze e attimi che possono sembrare scintille, meteore  e costrutti che in qualche modo parlano di chi la musica l’ha inventata per come la sentiamo oggi, tra le sperimentazioni divincolate dalla società del tempo e quegli sprazzi di luce abbagliante che come un lampo illuminano gli orizzonti da qui al futuro.

Partire con questo racconto a vignette mi sembra essenziale per comprendere almeno a livello diretto, lontano da qualsivoglia forma enciclopedica, la storia di Syd Barrett, la storia di un uomo che nel bene e nel male ha costruito i Pink Floyd per come li conosciamo o perlomeno ha contribuito a disegnare un periodo, gettando le basi, per ciò che poi il gruppo londinese, sarebbe diventato.

Un viaggio emozionante, un viaggio in primis legato all’amicizia, quell’amicizia profonda che lega, ma che inevitabilmente poi tradisce e quel desiderio di fare gruppo, oltre ogni aspettativa, quando ancora la musica la si faceva per passione e non per denaro, un viaggio tra vignette che permettono al lettore di entrare in profondità per comprendere caratterialmente le esigenze di quel diamante pazzo che sconvolge, incorpora e amalgama e allo stesso tempo distrugge e si annienta subendo il peso delle droghe, quel peso che porta il nostro a strafarsi prima dei concerti,  costringendo i Pink Floyd a sostituire la sua presenza con il chitarrista Gilmour, proprio nel post periodo di The Piper at the Gates of Dawn, un album che è esso stesso capostipite della psichedelia per come la conosciamo, un disco sul buio cosmico che si innalza nella ricerca di una nuova luce, quella luce che forse proprio Barrett, da li in poi non è riuscito più a vedere e ad esplorare.

Chiaro scuri in netto contrasto portano le vicende fino all’ultima apparizione negli Abbey Road Studios, datata 1975, durante le registrazioni di Wish you were here, un album forse dedicato proprio al nostro, un’apparizione al gruppo però quasi destabilizzante, un Barrett calvo, grasso, con le sopracciglia rasate e un borsa per la spesa: un cosmonauta dagli occhi dispersi e lontani, fuori da ogni stato mentale normalmente concepibile, per come la si intende la cosiddetta, soggettiva, normalità.

Il tutto viene raccontato egregiamente da Danilo Deninotti, autore dei testi, che trasforma i vissuti di quel tempo in qualcosa che possa restare nell’immaginario delle generazioni future, senza dimenticare le superbe illustrazioni di Luca Lenci che si muovono su più livelli, ad incontrare De Luca per alcune scelte stilistiche e contornando il tutto grazie a salti temporali artistici ed efficaci.

Un fumetto che è esso storia e si fa portatore di una nostalgia contagiosa, il tutto ambientato nella più naturale delle normalità, tra i giorni che si inseguono e un tempo immodificabile, tra la pioggia dei ricordi e quell’insieme di colori durati un lampo; perché per qualche momento, in un tempo indefinito, Syd Barrett era l’arcobaleno e i Pink Floyd i colori che lo componevano.

-FUMETTO- Abaddon – Koren Shadmi (Edizioni NPE)

Titolo: Abaddon

Autori: Koren Shadmi

Casa Editrice: NPE

Caratteristiche: 240×165 mm, orizzontale
cartonato, 272 pp. a colori/19,90€

ISBN: 9788897141709

Corridoi claustrofobici che rincorrono l’ansia, ottenebrati da una luce fioca e un azzurro pastello penetrante, capace di stabilire il senso tra reale e immaginato, in un’unica scossa collegata al risveglio, in un unico motivo, la storia di un uomo, incasellato in un Hotel, l’Abaddon, sperduto nel tempo e nello spazio, fuori da ogni forma e dimensione, autonomo in tutto e che ad ogni pagina grida il proprio senso di libertà in una narrazione fagocitante, affamata d’aria, pronta ad esplodere, pronta a segnare indelebilmente un cammino fatto di deliri dove il Lynch di Inland Empire si scontra con le metamorfosi di Kafka, in un domandarsi continuo attraverso i salti temporali, tra la guerra, quella guerra che cambia vite, fino alla perdita della memoria, fino alla perdita di noi stessi, un io da ritrovare prima che sia troppo tardi.

Koren Shadmi nato in Israele, fumettista dallo spiccato valore intrinseco, già conosciuto in Italia per l’opera Love Addict, con la sua nuova narrazione ci delizia in modo del tutto originale e contorto, facendoci attraversare un mondo fatto di personaggi strampalati e allo stesso tempo inquietanti, ben delineati caratterialmente, ma nel contempo creature aleggianti, disconnesse dalla realtà e frutto di un immaginato viaggio in un mondo che potrebbe essere l’aldilà; perentoria e categorica poi la divisione dei piani e delle vicende narrate anche se il tutto confluisce come un fiume di sostanza rosa nauseabonda a rimarcare un’idea di continuità, il filo rosso che lega le varie stanze, le varie camere e i vari appartamenti, fino ai corridoi infiniti che vedono il protagonista Ter districarsi in cammini senza fine.

La pin-up meravigliosa e turbata, il prepotente e lo scultore innamorato, passando per la culturista, i coniugi musicali e gli hippies di un altro tempo fino all’harem paradiso che convoglia l’incedere del nostro solitario eroe in una scoperta che ha il sapore di un film di Nolan e che trova nella sua concentricità un finale ineluttabile e destabilizzante, ogni tassello prende il sopravvento in un quadro puzzle camaleontico.

Questa è un’Opera con la O maiuscola, pubblicata in Italia dalla Edizioni NPE sarà disponibile dal 12 Maggio anche in tutte le librerie e fumetterie italiane, un racconto grafico degno di un’illusionista che ci fa comprendere, in fin dei conti, che morire è solo un passaggio, da una gabbia grande a una più piccola, nell’incedere del tempo, nei ricordi stretti dentro di noi.

Per acquistarlo ecco la pagina dell’editore:

http://www.edizioninpe.it/product/abaddon/

 

 

 

 

Salamone – Il Palliativo (IndieSoundsBetter/Believe)

Da Palermo Salamone, per questo disco d’esordio dallo spiccato gusto teatrale, ricco di quella gravida capacità di attirare l’ascoltatore dentro ad un vortice di saltimbanchi paesani, tra i vizi e le forme disincantate, l’irriverenza di chi sa cosa vuole dalla musica e il fascino, mai e poi mai stereotipato; un cantautorato intriso di veridicità e racconti sonori capaci di tessere trame sofisticate, imbracciando musiche balcaniche spruzzate dal jazz e dalla forma imprevedibile di un’avanguardia multietnica e priva di confini.

Un disco nato dall’osservazione del mondo circostante, un osservare mai passivo,  che si sforza di narrare, in modo del tutto personale e autobiografico, le contraddizioni di una società malata, da analizzare con sguardo attento e sempre critico, una critica però che risulta ironica, dal sapore d’altri tempi, incrociando Jannacci, Carotone e Capossela: uno sguardo attento al presente che riesce a tratteggiare il futuro che ci aspetta.

Il nostro, con questa prova, già selezione come miglior opera prima al Tenco 2015, si garantisce un posto d’onore nel panorama della musica d’autore italiana, un posto di certo meritato per un disco che gioca con il mondo circostante, lo fa in modo ironico e divertente, ma soprattutto sentito, da perderci l’anima e anche un po’ di fiato, quel tanto che basta per farci sentire vivi.