Le cause perse – Amplesso (Autoproduzione)

Le cause perse ci portano a riflettere sul mondo che ci circonda grazie a testi penetranti e allo stesso tempo coinvolgenti che non ci rendono dei semplici spettatori immobili, ma attenti critici di una società che ci vuole e ci rende diversi; un romanticismo disincantato espresso in un vortice di sensazioni intrise di significato che ricordano l’infanzia, il bambino che è in noi, l’esigenza di fare pace con noi stessi tra territori acustici sovrastati da un piglio cantautorale che rende bene quell’idea di necessità e volontà di dare spazio alle emozioni; un turbinio concentrico che si muove tra la voce del cantante e chitarrista Yuri Duso e l’elettrica di Enrico Marangonzin fino alla collaborazione con la precisa e velata batteria di Daniele Carollo.

Un disco che parla con la voce dei tempi moderni, un disco sulla fame di sapere nel raggiungimento di uno stato di grazia che culmina nella rabbia, intesa come parte negativa di noi e capace di disfare quel bene creato e voluto che prima o poi tornerà a colmare quei colori dentro al nostro cuore.

Duvalier – Hay Lobos (Red Eyes Dischi)

Non è un paese per vecchi e lo sappiamo molto bene, tra desertiche e ataviche sensazioni che ci imprigionano al suolo, sotto la terra, nella miriade sconfinata di territori e lande desolate dove gli approcci costruttivi si aprono quasi a comparse di sogni/incubi in oasi solo immaginate e lontane, fuori dal tempo e dai vincoli futuri, ma dentro all’ingestione di sostanze mascherate, che alterano la percezione in una visione annebbiata e sudata.

Sono tornati i vicentini Duvalier e grazie a questo disco, il loro quarto disco, inglobano l’oscurità del mondo tra chitarre sgangherate e giustamente distorte per l’occasione che filtrano il passo a ritornelli poppeggianti e refrain che si fanno ricordare concessi all’apertura di Black is the sun che si lancia poi in voli pindarici nella fuzzeggiante presenza di Tony La Muerte, compagno di etichetta, in Il vecchio del monte, rivisitazione dello stesso one man band in chiave sonora assai differente.

Un disco di introspezione in stato di grazia, non definitivo e completo per fortuna, ma sempre  alla ricerca di quell’energia primitiva che ci incolla al terreno e ci ricorda prepotentemente il nostro essere materia in decomposizione con un’anima da preservare.

Del Sangre – Il ritorno dell’indiano (Latlantide)

Luca Mirti è lo Springsteen italiano e dopo questa affermazione potrei chiudere qui la recensione e invece per dovere morale nei confronti di questo disco, davvero notevole, mi dilungherò ancora un po’.

Del Sangre è un progetto sostanzialmente di due persone in pianta stabile Luca Mirti per l’appunto alla chitarra e alla voce e Marco Lastrucci al basso, questi due uomini, attraverso il loro nuovo disco, sono stati capaci di dare vita a un corollario di racconti immaginifici, sociali, veritieri e di protesta, toccando punti altissimi di poesia musicale e rievocando, alla maniera del Boss, gli spiriti di un passato non troppo lontano: tra riserve indiane e ghetti di periferia il mondo creato dalla band toscana pullula di personaggi che danno un senso tangibile alla realtà, il tutto accompagnato da una voce toccante e disinvolta in un uso dell’ italiano che mai avrei pensato fosse così incisivo, in bilico tra un Bennato d’oltre oceano e un Johnny Cash appena uscito di galera.

Un disco che tocca l’anima e si fa ascoltare più volte, grazie anche alla presenza di collaborazioni prestigiose, come quella di Fabrizio Morganti alla batteria già con Casa del Vento, Irene Grandi, Patty Smith solo per citarne alcuni per passare alla chitarra di Giuseppe Scarpato, il sax di Claudio Giovagnoli, l’hammond di Paolo Durante senza dimenticare il pianista Gianfilippo Boni in veste anche di cooproduttore.

Un album che fa spalancare non solo gli occhi su questa società, ma ci rende partecipi di un pensiero collettivo e diffuso troppe volte dimenticato.

Funkin’Donuts – In case of Emergency…(Garage Record Studio)

L’amore per l’energia sviscerale non si estingue con le mode passeggere, ma si fa sempre più importante ad ogni riscoperta e permette a gruppi come quello di cui parleremo oggi, di creare un’affinità con il passato e nello stesso tempo di rispolverare un genere che non è mai stato nostro, ma che riguardava soprattutto le produzioni oltre oceaniche di qualche anno fa.

Stiamo parlando dei Funkin’Donuts, band romana ben rodata per l’occasione che dopo qualche anno di intensa attività live e un ep alle spalle si concede nella prova sulla lunga distanza uscendone vittoriosa e riuscendo per l’appunto a far progredire un genere sottotono dando un senso anche al minimo granello di polvere che esplode dai palchi sotterranei e conquistando un’internazionalità dovuta e limata a dovere, incrociando i primi Red Hot di fine ’80 per passare ai brasiliani Titas in un notevole sali scendi emozionale impattante e generoso.

Capaci quindi di mescolare le carte in gioco, i nostri, si lasciano alle spalle ciò che fu, per concedersi in una stratificazione di suoni sporchi quanto basta per entrare nel giusto mood; un energico pugno sullo stomaco e la testa piena di sogni per il futuro.

GC Project – Face the odds (SlipTrickRecords)

Generi che si amalgamano e si fondono dando vita ad un’opera che ha il sapore della letteratura moderna, varia e intricata, ma sempre leggibile da più punti di vista e costantemente ricercata, di quella ricerca che non è un semplice mettere in mostra le proprie capacità o attitudini, ma è un vero e proprio smarcarsi dai preconcetti e dal già sentito per unire le corde dell’animo e dare vita a qualcosa di nuovo ed esaltante.

Giacomo Calabria nel suo progetto ci regala tutto questo, ci regala l’ambizione del tempo passato e la voglia di mettersi in gioco tra un hard rock sincero, passando per un prog a riscoprire le bellezze italiane degli anni ’70 fino ad arrivare ad una fusion in costante equilibrio con un blues sporcato di heavy metal.

Profondamente legati, tutti questi stili si concentrano nel rievocare i fantasmi di un tempo, nel passaggio chiaro scurale di una notte che è buia e misteriosa, da Hold on a Never again ci sono deserti di solitudini a ricreare una costante ricerca con il nostro io, tra tecnicismi assoluti e tanta, vera sostanza.

 

Burn the ocean – Come Clean (SlipTrick Records)

Granitici e portentosi a districare la scena grunge rock per darle nuova importanza e nuovi spunti sonori, appigli rigeneranti che consentono all’ascoltatore di entrare dentro ad un vortice di emozioni distorte, un tunnel, un oblio da cui difficile riusciremo ad uscire, per un suono che, nonostante gli anni andati, risulta alquanto attuale, tra incrociatori sonori e una semplicità di esecuzione, nonché una scioltezza nella pronuncia che grida al mondo una rabbia nascosta, canzone dopo canzone convince e come moto perpetuo intasca energia da regalare partendo con la notevole Days in November per arrivare a quella strumentale Gone away che vuole essere, vuole dare un senso maggiore alla partenza, in un crescendo sonoro, lungo tutto il disco, che strizza l’occhio a produzioni ben più blasonate.

Una band che si affaccia sul mare, loro vengono da Genova, sono i Burn the ocean, hanno appreso la lezione del tempo e con sostanza ce la spiegano in questo Come Clean, dal sapore di polvere e jeans strappati a segnare una nuova era.

Babbutzi Orkestar – Tzuper (Parruski & Makkeroni Production)

Strampalati portatori di un suono balcanico con testi non sense e disimpegnati che danno colore e calore ad una vita grigia, intersecando i sogni con l’esigenza di vivere in una spensieratezza contagiosa, ricca di approcci e riferimenti nel partorire una creatura che risiede fuori dai confini nazionali, senza dimore, senza desiderio di dimora e portatrice di quella velata ironia, come succede nel pezzo Caramella, che provoca nell’ascoltatore un senso di leggerezza a dispetto della formosa cover del disco.

Ascoltare la Babbutzi Orkestar è come assistere ad una rissa di ubriachi in un bar dove vedi le sedie volare e dove ti viene spontaneo sorridere a così tanta follia umana, anche se qui il tutto è incasellato in una ricerca notevole del suono tra rimandi a Emir Kusturica e Fanfara Tirana per pezzi caldi e irrefrenabilmente portentosi.

Un disco da ascoltare lungo l’estate che verrà, tra balli attorno al fuoco e matrimoni di un’altra terra, divisa solo da un pezzo di mare, che a dirla tutta non è poi così grande e così lontano.

Sara Velardo – 3 (Adesiva Discografica)

Sara Velardo si concede con grande stile in questo nuovo disco dalle sonorità prettamente indie rock legate ad una musica più intima, che abbraccia un’idea di internazionalità che si affaccia oltre le tempeste e oltre l’atlantico già conosciuto, non dimenticando gli insegnamenti della prova d’autore Polvere e Gas e intascando una manciata di brani che sono il compimento di un percorso evolutivo di pura sostanza, che in questo caso prende forma grazie ad arrangiamenti vividi e d’impatto, arrangiamenti che abbracciano i loop e la puntuale presenza dell’acustica a tessere trame e implementare la scena.

Sara non dimentica la componente sociale del tutto e per i testi si ispira alla quotidianità che le gira intorno, con un battito d’ali vola come un uccello sopra la città per carpirne i difetti, le ossessioni, le manie, il manierismo abbandonato per entrare in punta di piedi lungo i confini di un qualcosa di immateriale; la nostra con disinvoltura ritagli pezzi delle nostre vite per poi ricucirle in un nuovo vestito e forse sta proprio qui la peculiarità della cantante calabrese, il riuscire nell’intento di abbinare una gran bella voce e bei testi ad un significato mai scontato, ricercato, Sara mi fa pensare ad una musicista a tutto tondo, capace di prodezze sempre nuove e che non smette di stupire ad ogni nuova uscita.

Senhal – Parapendio (Dischi Mancini)

Disco di pop raffinato e contorto, calibrato a dovere ed esigente nei confronti di una scena ormai piatta, un album che è una ventata di vera freschezza tra le produzioni odierne intascando l’esigenza di raccontare e raccontarsi grazie a poesie che si fanno quotidianità sospinta verso l’alto e pronta a planare toccando prati, fiori e la vita stessa, il mondo visto dall’alto e noi consapevoli spettatori siamo li per raccontarlo, per farlo nostro, per ricreare dentro di noi l’esigenza di ritornare come eravamo, dinamici e all’interno di un tutto che ci vede molte volte i veri protagonisti della nostra vita.

Paesaggi crepuscolari che disegnano l’ampiezza e noi cullati dall’aria che ci accompagna pian piano nell’entroterra di canzoni come la title track o Panoramica a riaffermare un concetto che si esprime notevolmente soprattutto nel finale con Fiori e Bianco, per un disco che vede crescere notevolmente una band in continuo divenire e una copertina leggera e significativa come lo è la disegnatrice veneta Marina Marcolin: un tuffo nel vuoto tra i sogni del domani che deve arrivare.

The Please – Here (Maciste Dischi)

Dispersi nel deserto psichedelico dei sogni dove i The Please vogliono portarci con la loro nuova prova, ci imbattiamo inesorabilmente in costruzioni non lineari,  attraversando spunti di riflessione per poter comprendere l’origine di questa musica senza tempo e priva di confini che attinge l’idea stessa del rock e del folk in un luogo remoto e inaccessibile, penetrante e al contempo lisergico, quasi acido che si immola e concede ricordi targati ’70 e una voglia di sperimentare alla Justin Vernon su tutti, in un cantautorato luccicante e brillante.

Una fotografia che mantiene ancora i colori di quello che è stato, a ribadire le proprie origini, tra Jefferson Airplane e toccate del White Album per un disco che tutto possiede tranne che un’italianità scopiazzata, questa è una prova con l’anima di quelle sentite e rilasciate a chi verrà, in un sostanziale avvicinamento al passato che tanto ha reso importanti le prove dei gruppi moderni che ancora calcano la scena, che ancora vogliono parlare di sé.

I nostri ci regalano una prova di respiro internazionale, intensa, dove la parola QUI non significa tempo, ma significa casa, un qualcosa che va oltre le concezioni per una musica che non ha età, ma che ha trovato la propria dimensione nel condividere; poi dentro c’è tutto il resto: i rapporti che si aprono e si chiudono e la vita che prende il colore che le vogliamo dare.