Boxes – Boxes (Resisto)

Le scatole raccontano, parlano di un mondo sotterraneo inquieto, ma ricco di vivacità sonora capaci di trasformare l’attesa in un sodalizio con la musica dai più disparati generi che unisci il funk, al soul, le atmosfere eteree dell’intro strumentale e vocale, fino a raggiungere un acid jazz dalle sembianze pop che strizza l’occhio alle produzioni passate e garantisce un viaggio di costrutti sonori difficili da incasellare, ma sostanziosi, carichi di quell’immaginario che si evince solo dalle prove strutturate, mirabolanti e in parte funamboliche, portatrici di un’esigenza contemporanea e forse assoluta, nel mondo musicale per come lo conosciamo, di fondere diverse sinergie per costruire un proprio viaggio che in primis si fa mentale per poi progredire in uno stanziale, in memoria delle atmosfere degli anni ’70 a cavallo con gli ’80, un incalzare sonoro che regala l’anima e non nasconde le proprie capacità di essere unico.

Cafe Desordre – Disordinazioni (Autoproduzione)

Progetto musicale che mescola sapientemente e in modo devo dire alquanto inusuale il cantautorato con le influenze jazz, passando per la psichedelia e il suono prog a noi più caro in un connubio che si fa racconto di polvere e sostanza che lascia l’ascoltatore interessato per la tecnica utilizzata, una formula vincente e priva di artifizi in bilico tra immediatezze e cura dei dettagli, dei particolari.

Per originalità della proposta ricordano i vicentini CASA, meno sperimentali certo, ma sicuramente in grado di creare emozioni sonore che vanno in netto contrasto con le produzioni attuali, alla ricerca di una propria via da seguire nello sterminato panorama della musica italiana odierna.

Si perché fare musica oggi, nel 2016, significa soprattutto avere i piedi per terra e i nostri veronesi psycho folk Cafe desordre insegnano tutto questo; la sperimentazione parte in primis dalla consapevolezza delle proprie capacità mantenute e implementate nel tempo, ma mosse sostanzialmente da quell’energia interiore che si chiama musica e che ne raccoglie il significato più profondo.

Un disco sulle disordinazioni del nostro io, sui viaggi cosmici, interstellari e sui momenti di follia che ci richiamano ad essere diversi in un’eterogeneità che ci appartiene fin dal principio.

BOB – All’ombra della vergogna (Autoproduzione)

Una copertina, oltre che bellissima, anche significativa, ci racconta il pensiero dei BOB, trio toscano che mescola sapientemente un cantautorato post duemila, al rock più cupo e sotterraneo per parlare di un mondo che sta crollando alla ricerca della felicità dispersa e mai più ritrovata.

I tre protagonisti della foto sono indaffarati a compiere il loro banchetto nel giorno di festa, ma non sanno che cosa li attende, che cosa il futuro ha riservato per loro.

Ecco allora che i BOB trasformano un concetto in un racconto, in una lezione di vita, in uno spazio ben delimitato dove poter sfogare la propria rabbia e l’abbandono che ci coinvolge, un modo per essere diversi in un mondo che ci vuole tutti uguali.

L’innocenza poi del disco è rappresentata dalla bambina, la bambina schiava, il popolo che lavora e che raccoglie i frutti della terra tra sonorità distaccate e a tratti psichedeliche dove la componente d’improvvisazione è ben dosata e ricercata.

Ricordiamoci di un mondo migliore o almeno immaginiamolo, ricordiamoci di quell’albero, con i tre cappi, qualcuno un giorno, su questa terra vi giudicherà.

Day after rules – Innocence (Autoproduzione)

Il giorno dopo le regole sigilla una prova di coraggio che tocca ancora i fasti degli anni ’90 del punk rock dei Green day, degli Offspring e di tutto quel filone partito da lì e che ha invaso il pensiero degli adolescenti di quei tempi, tra voglia e bisogno di gridare la propria rabbia in contrapposizione costante agli altri generi che andavano per la maggiore.

I nostri con questo disco fanno capire di conoscere il territorio, di conoscere gli anfratti del tempo lasciato alle spalle e tutta questa energia indomabile è racchiusa in queste sette sporche, ruvide tracce; in un concentrato di follia che divaga nel nostro mondo a contatto con altri, dal sapore immediato, senza ingannare le apparenze, ma intascando l’effetto desiderato fin dall’inizio con Swamp per correre lungo i binari già conosciuti, ma solidamente interpretati nel raggiungere il finale lasciato a My innocence.

L’innocenza è il bambino dentro di me, in balia di ciò che verrà per un suono colmo e carico, diretto e che fa di questa immediatezza una carta vincente per questa band che ha saputo ridare al passato un amarcord meritato.

Zagreb – Fantasmi ubriachi (Foresta Fonica Records)

Rock tirato ed esistenziale che non si ferma alle apparenze, ma stupisce per sostanza ponendo l’accento su considerazioni che vanno oltre il quotidiano e l’idea che ci siamo fatti della vita.

Questo, della band stanziata tra Padova e Treviso, è un lavoro ricercato e qualitativamente buono che intasca la prova dei tempi che furono, soprattutto del suono italiano dei primi 2000, per rielaborare il tutto con originalità e grande maestria, coadiuvati per l’occasione da Manuel Fusaroli e Federico Viola; un album che vuole parlare all’Italia e denunciare un modus vivendi che ci affligge e ci rende immobili davanti alle difficoltà quotidiane il tutto impastato da sonorità che ricordano I Ministri su tutti e qualcosa dei primi Zen Circus, in un vortice di tensione che esplode in multiformi energie da domare.

Nove pezzi che raccontano dei nostri giorni, lo fanno con verità e normalità, senza essere disimpegnati e tantomeno pesanti, anzi la peculiarità di questa prova sta proprio nel fatto si saper raccontare un momento della nostra vita così delicato in naturale sintonia con i nostri pensieri, creando un ponte visibile tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.