Pin Cushion Queen – SETTINGS_1 (Autoproduzione)

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Ridondanti suoni che percorrono lo spettro di luce lasciando decomporre in cantilene infinite percezioni infinitesimali della grandezza di questa band che esplode in contorte visioni di sovrapposizioni chitarristiche e volontà da vendere nel conquistare spazi di apertura sonora e coinvolgendo l’ascoltatore in un piccolo concept strutturale e aperto, non autoconclusivo, ma una porzione di terra così piccola e così irreale, che si aprirà a conquiste future con nuovi settings moltiplicati fino a contemplare nove pezzi implementati da un apparato testuale in un’avventura lontana dal prodotto finito e vicina alla conquista di un mondo nella creazione di cupezze d’animo e velocità di pensiero che portano all’ascoltatore in territori cari alla band di Yorke e soci fino a incontrare la sperimentazione newyorkese dei Battles capitanati da Ian Williams.

Un disco che brilla e ipnotizza, strano a dirsi in un’epoca da stampini di sabbia; il primo ep della band bolognese ingrana molteplici piani dentro un campo lungo in dissolvenza.

 

Bruno Belissimo – Bruno Belissimo (Locale Internazionale)

Funk e disco amalgamati dalla House in riva al mare sorseggiando cocktail e creando un’atmosfera da puro vintage balneare legato al filo dei beat minimali e al contrasto acceso tra l’ironia e la perfezione in un suono che non si apre mai, ma resta costante ricerca di un possibile modo per popolare l’estate di aperitivi lunghi intere notti.

Questo è Bruno Belissimo, dj e producer italo canadese, già attivo nei Low Frequency Club, come bassista nel tour di Colapesce e in giro per il mondo da Parigi a Londra passando giusto giusto per il Cile con la sua musica a ricoprire di tappeti sonori il suo mondo diretto, immediato, dagli arrangiamenti a quella copertina che varrebbe l’acquisto del disco.

L’origine di tutto e la fine di tutto e in mezzo c’è tutto il resto, granelli di sabbia baciati dal sole e suoni in contrasto con i colori del mare, un’energia celata pronta a far ballare e muovere i piedi in ritmi che hanno il sapore del tempo che fu, in chiave moderna, un funk rivisitato che ha il giusto appoggio per portarci lontano.

Felix Lalù – Coltellate d’affetto (DGRecords/Riff Records/La Ostia)

Felix Lalù è uno strampalato cantautore che vive tra i veleni delle mele genuine e dopo una dose massiccia  di diserbanti e altre amenità se ne esce con una prova dal sapore intima cameretta dove la componente fanciullesca è essenziale per stabilire e rimarcare un’idea, un concetto che non è altro che il vivere quotidiano in alta quota in grado di proiettare nel cielo fotografie virato seppia di una semplicità disarmante, sincera e certamente utile per capire il pensiero di queste follie in musica.

Si raccontano le vite di paese e con sarcasmo ed ironia si parla del mondo e di come gira, da un punto di vista quasi letterario, un brain storming di pensieri a tempesta che non illudono e non scendono a compromessi, ma sono lo specchio dei nostri giorni, visti con gli occhi di chi vive la vita nelle difficoltà quotidiane, tra chitarre dimenticate nei fossi ed energia lasciata sotto il pavimento, per un cantautorato dimesso, ma di sicuro effetto.

Numerosi sono gli ospiti presenti ad accompagnare il nostro, da Jacopo Broseghin dei The Bastard Sons Of Dioniso, passando per il reverendo Jhonny Mox, Elli De Mon, Candirù, Simone Floresta, Gianni Mascotti, Phill Reynolds, Michael Pancher e Mirco Marconi per una musica che fa riflettere con il sorriso sulle labbra, in memoria dei tempi andati e di quelli che verranno.

Il pinguino imperatore – domeniche alla periferia dell’impero (Stormy weather)

Commistione e substrati di intellegibilità che vanno oltre l’idea di musica pre confezionata, ma che si stagliano  all’orizzonte in un pot pourri di colori vivaci e ironici capaci di intrattenere un pubblico esigente e affamato di novità.

Definirlo avant rock sarebbe quasi riduttivo, infatti i nostri riescono nell’intento di affinare una tecnica cresciuta nel tempo per confezionare una prova esigente e in perfetto equilibrio tra un Zappa d’annata e un Elio attuale passando per l’energia sviscerale degli At the drive in fino a scomporsi nella magia delle parole dei Marta sui tubi, per testi che sembrano portatori di un non sense quasi dichiarato, ma che dopo numerosi ascolti si fa reale e tangibile, ricco di costrutti e parole nascoste che acquisiscono senso e significato; una poesia dentro la poesia per una prova che stupisce e lascia all’ascoltatore interpretazioni variegate ed emozionali.

Sono dieci canzoni sospese, personali e corrosive, entrano con facilità e il senso di smarrimento iniziale si placa fino a scorrere lungo le profondità del finale lasciato a Cul de sac per un album fatto di sostanza mutevole e preziosa, da custodire in questi tempi bui.

Andrea Carboni – La rivoluzione cosmetica (Autoproduzione)

C’è tanto di quel rock anni ’90 in questo disco da far spavento, un rock legato indissolubilmente a piccoli ritocchi estetici di elettronica commistionata al cantautorato in modo sublime, dove le parole si legano alla musica e creano un vortice di sensazioni che non stancano, ma in loop ossessivo concedono una quadratura del cerchio che arriva fino ai Placebo, partendo proprio con i cari Radiohead in una Rivoluzione cosmetica che riecheggia nell’airbag del gruppo di Oxford.

Una linea continua che fa sospirare e vede nell’immaginario coltivare con risaputa capacità, ciò che il nostro aveva già gettato con Due, una ricerca stilistica di un proprio io che ricava attimi di esplosioni chitarristiche in un pop che per sua definizione è antipop per eccellenza, in divenire, raccontando di posti lontani e amori supremi, di battaglie da vincere e di perdite assicurate.

Un album di otto canzoni che svela un tiro deciso fin dall’inizio, con un’ottima e affilata registrazione accompagnata da un egregio mastering, otto brani a dominare la scena, la rivoluzione cosmetica è alle porte e questo atto di denuncia per ciò che non siamo più suona molto attuale nel mondo che ci circonda.