Blueriver – Waiting for the Sunshine (Autoproduzione)

Waiting for the Sunshine è disco di sole quattro tracce, ma che bastano per incasellare una prima prova di debutto fatta di sonorità care negli ascolti di fine ’90 e inizio nuovo millennio, in bilico soppesato tra Pearl Jam e Nickelback e dalla capacità nonché dalla voglia di emozionare partendo da delle semplici composizioni con di base un’acustica e via via sormontando il tutto con sferzate chitarristiche in divenire che segnano la strada, un disco fatto di sogni e materializzazioni e di attesa, quell’attesa che si apre a nuove speranze e un augurio a questo progetto che possa continuare a creare un ponte tra passato e futuro, tra gli anni ’70 e oggi, trovando sempre una dimensione di esemplificazione anche in chiave live.

Venus in furs – Carnival (Phonarchia)

Roboanti e menefreghisti, ma che sanno raccontare senza peli sulla lingua di circostanze astrali che rimandano alla vita di tutti i giorni, forse ci viene da associarli ai Ministri o agli Zen Circus dopo un primo ascolto anche se qui sparisce la spontaneità velleitaria atta a raggiungere un punk trascinante in quanto i Venus in furs intascano, da subito, una prova matura e costruttiva priva di orpelli inutili e diretta al nocciolo della questione, parafrasando egregiamente i vissuti di ogni giorno e trascinando con spirito unico undici tracce in bianco e nero tra distorsioni volute e testi sempre abrasivi.

I nostri parlano di noi e di quello che ci gira attorno, lo fanno prendendo sempre delle posizioni nette, spiegazioni per l’occasione accompagnate da una voce più incisiva che mai, merito del tempo, certo, merito anche della maturazione che non teme di calcare i grandi palchi senza far da spalla a nessuno.

Un disco da ascoltare tutto d’un fiato, con canzoni che ci accompagneranno ancora per un bel po’, a segnare quel cammino di solitudine e rabbia incastonato perennemente in una foto d’altri tempi e soprattutto con il coraggio d’altri tempi.

Music for eleven instruments – At the moonshine park with an imaginary orchestra (DeadPopOpera/The Orchard)

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Una favola orchestrale tarata nel tempo della vita che racchiude al suo interno le gioie e i dissapori, quel gusto salato che ci rappresenta e districa in maniera imprescindibile i nostri affanni, ma anche li crea, in un continuo andare e venire in preda a disperati tentativi di trovare una pace interiore.

Questo disco sa di tempi andati, se penso ai Music for eleven instruments, mi viene a mente una giostra di cavalli in un luna park abbandonato, che ha conosciuto i fasti del passato e del tempo e che ora giace lì pronta ad essere riutilizzata, per far felici altri bambini, per rendere l’esistenza un po’ meno amara, per dare ancora speranza in un concentrato di architetture ben pensate e soprattutto studiate per dare in primis spettacolo, una bellezza che non riceve, ma dona.

Ecco allora che i volti ottenebrati si fanno luce, ascoltando pezzi come l’apertura di Conspiracy over my head o Tunnel Vision o l’impressione edificabile di Fragile butterfly wings.

Un disco maturo e del tutto originale che incamera le lezioni di Bjork e di una certa musica nordica che accosta strumenti acustici a sessioni di fiati e di archi, certamente una cosa abbastanza inusuale in Italia che si fa speranza per ricordi da rievocare.

 

 

Jenny Penny Full – Eos (Autoproduzione)

Atmosfera creata e ridondante che si accatasta al suolo, nascosta nelle foreste di pini che coccolano la Lessinia e si concedono di trasformarsi in luogo di racconto per le narrazioni sonore dei Jenny Penny Full che stupiscono, nonostante il primo album, per scelta stilistica e capacità di ottenebrare un meraviglioso concetto di vita per consegnarcelo destrutturato e impacchettando per bene un disegno artistico di respiro internazionale.

Qui dentro ci sono i Portishead, c’è Joan as Police Woman, ma ci sono anche i Blonde Redhead e aggiungerei anche una spruzzatina di Low e degli italiani Amy can be per dare sfogo interpretativo ad una commistione di suoni che non si fa mai preponderante, ma risulta calibrata a dovere, intercettata e meravigliosamente scomposta per dare il via a pezzi come Freezing orchestra passando per Of oceans and mountais e Supernova fino al gran finale di Eos – Reprise.

La dea dell’Aurora quindi sta tornando, un disco sull’oscurità, ma anche sull’attesa di un giorno diverso che deve arrivare, un album sui costrutti introspettivi della vita e sul tempo che ci condiziona, ma allo stesso tempo che ci rendi vivi; sentiremo ancora parlare di loro o almeno lo spero.

Chicken Queens – Buzz (La Clinica Dischi)

Duo spaccatimpani e psichedelico che spara a mille sui volti nascosti di chi tenta di osservarli, non si lasciano dietro nulla, non si lasciano dietro il tempo e creano una commistione di sudore e rumore che si avvicina per molti versi al primordiale rock sviscerato da Hendrix per passare al Jack White dei nostri tempi in un’altalena piastrellata di forme e colori dove la melodia non esiste, ma la forma e la sostanza sono elementi imprescindibili per la buona riuscita di questo disco.

Impatto notevole quindi che lascia lo spazio a qualcosa di primitivo che ti entra nel corpo e non ti lascia andare, quel qualcosa che sa di ruggine e tempo perduto, di maturità sonora, ma anche di punk alla vecchia maniera, quando il marcio che era dentro, si esponeva ed usciva con tutta la sua rabbia carica di significato e d’altronde i nostri non sanno contenersi e creano sfacciatamente un modo diverso di approcciarsi alla musica, un modo più diretto, meno elaborato, ma di sicuro effetto.

 

Blastema – Tutto finirà bene (Ostile Records)

E’ un rock elettronico che si ravviva con tocchi di cantautorato criptico quello dei Blastema ed è anche un moto ondoso configurato al nuovo sistema operativo che riesce a traboccare metadati in formato musicale e li considera parte vitale di un luogo inospitale in cui vivere, lasciando posto al futuro e alla ricerca che non si ferma, ma raccoglie eredità e ascolti del passato per riprendersi e lasciarsi trasportare in echi primordiali mai sussurrati piuttosto carichi di vitalità sin dalle prime battute.

Un rock pressurizzato che si ravviva grazie al colore della notte, un cantato vibrante attesa per dei veri e propri animali da palco che intravedono futuri roboanti grazie al connubio degli strumenti in scena e soprattutto grazie ad un misto rock che si fa onnipresente toccando punte alla NIN e A Perfect Circle in un continuo distruttivo, ma cantato in italiano, vera e propria sorpresa per il genere, sottolineando l’importanza di dare un contributo attivo e innovativo alla musica 2.1 dello stivale.

Si parte con La parte pure per scorrere la bellezza di Prima Che e Asteroide passando per Pastorale e Un modo semplice fino al gran finale affidato a Il destino del mondo per un disco ricco di sfumature, quelle sfumature che compongono la nostra vita e che i Blastema anche questa volta ci hanno raccontato.