Vilma – Primo (Oh!Dear Recordings)

Primo è un incontro sul ring della vita, è il bisogno di dare un pugno al mondo intorno, Primo è la montagna che cammina, quell’enormità fatta persona che racchiude al proprio interno un sogno; combattere per non cadere, combattere fino all’ultimo soffio vitale.

I Vilma sono tutto questo e confezionano un disco fatto di rimpianti e tanta rabbia racchiusa nelle note delle sette canzoni che attraversano il loro percorso, piccole citazioni, grandi conquiste, sette pezzi che si domandano se l’io poteva essere diverso, se si poteva fare qualcosa di diverso per essere migliori per cambiare.

Ecco allora il ring, metafora della vita, dove tutto accade e i colpi mancini sono all’ordine del giorno, i nostri però ci insegnano a rialzarci, tra un emo punk italiano intriso di screamo e hardcore a farla da padrone, a segnare il cammino, a consegnarci un disco di solitudine e abbandono, ricco di quella forza che sa di lotta, che sa di fierezza e di complicità, passione e bellezza da far rinascere dietro alle maschere quotidiane.

I Fiori di Hiroshima – Nabuk (Phonarchia Dischi/Audioglobe/The Orchard)

Pulsanti di energia giovanile e vibrante attesa i nostri Fiori di Hiroshima, ventenni e essenzialmente energici si stagliano all’orizzonte della musica italiana con questo loro primo disco di cinque piccoli racconti dal sapore dolce amaro e atteggiati da spirito di appartenenza nei confronti di sodalizi cosmici e chiaro scuri luccicanti e vibranti, un piglio deciso e desiderio di stupire, tra distorti non celati e quella classe che tende ad uscire allo scoperto, fresca energia di puro indie rock nostrano, quello che va di moda oggi, quello che si sente ai concerti, quello che la gente vuole sentire.

Nociva apre le danze elettro acustiche fino alla compressione finale della title track Nabuk, un soffio di vento e poi la tempesta, un soffio di vento ancora per sperare, passando per quella storpiatura malata di Datemi un martello e poi via via a rincorrere un’internazionalità ambita e ricercata.

Solo cinque pezzi, ma che in qualche modo denotano le potenzialità della band, potenzialità da affinare con il tempo, ma intrise di quell’odore di gioventù che fa così bene, tanto da poter essere aria fresca in piena estate.

The Chanfrughen – Shah Mat (Molecole produzioni)

Disco pluridecorato con vezzo di un’elettronica barocca che si staglia oltre l’orizzonte, unendo in modo quasi univoco civiltà e popoli che da Oriente a Occidente comunicano a fasi alterne, un album in grado di concepire le sfumature delle terre lontane, qualunque esse siano e capace di connettere la nostra abitudine di cambiare in un qualcosa di naturale e sommamente appagante.

I The Chanfrughen sono tornati con questa manciata di pezzi colorati da sferzate blues e rock che incontrano il funky e creano una commistione sonora ben congegnata e sentita, dove l’improvvisazione e il riff facile ha la stessa valenza e caratura artistica di una compressa eleganza mai celata, ma esposta in modo del tutto sensato e rapita dal ragionamento, rapita dall’intelletto, rapita da qualsivoglia forma di comunicazione che attraverso la musica incanala energie nascoste per librarle lungo le tracce che si dipanano: dall’apertura di Voodoo Belmopan fino a Limonov; Russia e Cina non sono mai state così vicine.

Ecco allora che questo disco si colloca all’interno di una loro ricerca, di un loro essere che va oltre il falso mito di una musica eterna, ma si impossessa dell’attimo per rigettarlo al suolo come fosse l’ultima nota del mondo, come fosse una sostanza da dover incanalare per respingerla nell’immediato, ad effetto sorpresa, sostanziale ricerca di un proprio mondo quotidiano.