Malarditi – Un po’ più in là (D Cave Records)

Non vogliono effetti, non vogliono manipolazioni sonore eccessive, non ricercano il suono fantasmagorico che lascia di stucco, a loro interessa arrivare al nocciolo della questione, all’essenzialità pura e semplice contestualizzata in un folk pop velato dal country che rapisce già dalla partenza di A casa mia, canzone introspettiva di velata malinconia, passando via via dall’apertura non solo visiva di Un po’ più in là e dall’inquietudine di Eroi, persone senza scrupoli che caratterizzano la nostra vita giorno dopo giorno; si scorre poi con facilità verso La ballata del tempo perso e quella Quasi ridicolo che racconta le sorti di una notte dove il pensiero senza senso vince su tutto.

Via via che il disco scorre, arriva la delicatezza testuale di Dimmi se mi vedi ancora qui, passando per la bellezza di Lunedì, il giorno dell’inizio, il giorno dei pensieri più profondi e poi via ancora con Tutto va bene così, Mia e Televisione a sancire una encomiabile e allo stesso tempo elegante presa di posizione.

Ah non li avevo presentati, loro sono i Malarditi, gruppo capace di confessarsi e di mettere a nudo la propria anima, un disco suonato quasi del tutto dal vivo, come sulla strada, quella strada che hanno imparato a conoscere, quella strada che è sacrificio e impegno, senza meta alcuna, ma con spirito totalmente libero da vincoli che li fa sentire più vivi.

Alessandro Orlando Graziano – Onironautica (Paradigma Music)

Quello di Alessandro Orlando Graziano è un disco che denota la propria capacità stilistica fin da subito perché riesce a condire un raffinato raro caso di cantautorato con un’elettronica studiata fin nei minimi particolari, un’occasione per distinguersi e cercare nuove vie d’uscita per un cantastorie che conosce alla perfezione la poesia e sa incastrare testi e musica, morte e vita in un sodalizio enigmatico quanto puro.

Alessandro non ha bisogno di molte presentazioni: nel 2003 riceve il premio De André nella sua prima edizione, nel 2007 è ideatore e produttore di Aeroplani ed angeli, ultimo disco di Carla Boni e nel 2014 è coinvolto da Antonella Ruggiero al Festival di Sanremo per la collaborazione artistica del pezzo “Da lontano”.

Riferimenti quindi precisi che fanno del cantautore un punto nevralgico di idee e sostanza, sostanza raccontata in questa ultima fatica Onironautica.

Il titolo del disco è l’esperienza onirica vissuta, il sogno lucido che si fa ricordare, l’essere vivi sognando, un mondo parallelo e talvolta inconfessabile che ci cattura e permette alle nostre idee di fondersi con un qualcosa di più importante e più reale.

Nell’album ci sono richiami all’Oriente, all’amore lontano, passando per Albero Sordi e al nostalgico ‘900; strumenti classici che si conturbano all’elettronica, generando una new wave molto personale e contaminata per finire con la sorpresa di Tripoli, coautore di Giuni Russo, che collabora alla stesura di Giardino d’inverno.

Un disco pieno nel vero senso del termine, un disco che sa emozionare fin dal primo ascolto e segna la continua strada e la continua ricerca di una persona prima di tutto che ha fatto della propria arte un vero stile di vita, tralasciando il superfluo e regalando pagine per i ricordi futuri.

Yes Daddy Yes – Go Bananas (Autoproduzione)

Se ne fregano di tutto e di tutti, arrivano elettrizzati al gran finale e con disinvoltura da navigati confezionano una prova di puro rock n roll capace di penetrare, creando quella sintonia con l’ascoltatore sempre viva e sempre capace di scatenare emozioni corali che si perpetuano lungo tutto il disco.

Sono melodie semplici, lo ammettono loro stessi, ma forse è nella semplicità che i grandi del passato hanno coniato il loro marchio di fabbrica, il tutto deve essere orecchiabile quanto basta per delimitare un confine tra ciò che potrebbe essere spazzatura radiofonica e ciò che invece diventa ricerca continua.

I nostri Yes Daddy Yes sicuramente si affacciano a quest’ultima idea unendo distorsioni e amore per gli anni ’90, reinterpretando però il tutto e esprimendo quella sana sfacciataggine proponendo un rock che sicuramente per sonorità si affaccia all’oceano più che al mar Mediterraneo.

Una musica che non si pone troppe domande, una musica che va oltre l’idea di stile preconfezionato, un mondo ridipinto e ridisegnato per l’occasione, dal singolone Noah passando per Modernize e Imagine, finendo con Inner Freak, un suono che non ha confini, tra l’amore per il passato e l’idea dominante di uno stile per il futuro che verrà.

Voina Hen – Noi non siamo infinito (Maciste Dischi)

La realtà sbattuta in faccia, la realtà che squarcia le giovani generazioni e le protende ad un ineluttabile destino, in cerca di appigli dove potersi aggrappare, dove poter sperare, in contesti fuori da ogni schema di logica comune e altrettanto disadattamento per i pensieri, quelle molecole che fanno funzionare le nostre vite e ci rendono forse ancora più liberi.

I giovani Voina Hen sanno che cosa vogliono e sono alla costante ricerca di tutto questo, ci raccontano di un’Italia che non funziona e parlano delle aspirazioni dei ragazzi di oggi, lo fanno con rabbia, rabbia contro il sistema, una rabbia però costruttiva che si confessa e ci rende partecipi dello sfacelo, partire da quell’idea di fondo che noi non siamo nulla, noi non siamo infinito, noi non siamo quello che gli altri vorrebbero che fossimo, siamo tutti diversi e soprattutto non vogliamo una vita fatta di cliché e di banalità che ci sommergono.

Ecco allora che dal punto di vista musicale i nostri incrociano i Ministri passando per i FASK e condividendo quella protesta vissuta in piazza che deve essere il segno del cambiamento, non un semplice lanciare messaggi, ma una vera e propria presa di posizione verso una cieca sovranità nazionale.

Prodotti dalle menti contorte, ma efficaci, di Manuele Fusaroli e Marco di Nardo i Voina Hen confezionano undici pezzi di puro indie rock nostrano, partendo dall’elettrizzante tempesta e concludendo il tutto con la fine/inizio del tutto Il funerale; undici brani di grande spessore che parlano di fallimento e di rinascita, di scoperta e di amore per quel qualcosa che si chiama vita.

Lush Rimbaud – L/R (Bloody Sound Fucktory & fromSCRATCH Records)

Lush Rimbaud è il suono della poesia elettronica, quel salire sul palco e immaginarlo ricoperto di luci crepuscolari che ci sommergono e ci indicano la via da seguire, un paesaggio buio e qualche fascio perpendicolare alla nostra testa che ci porta verso il cielo, verso l’ignoto; evocazione sonora di un tempo criptico e introspettivo, dal sapore martellante della new wave e dalla sincope continua che caratterizza produzioni più moderne.

I marchigiani si rinnovano e si concentrano sulla formula less is more, partendo dalle cose semplici, quasi togliendo l’inutile e dilatando i tempi verso concetti che si fanno via via sempre più ampi e divulgativi: Massive Attack che incontrano i Portishead lanciando sguardi glaciali verso la poesia islandese anche se a fare da tema portante del tutto è l’oscurità con i propri sogni e i propri incubi.

Incubazione quindi perfetta, gestazione e cambio in divenire di stile e sostanza che parte con Marmite per raggiungere alte vette sonore con il finale Dark Side Call in un perpetuo atollo solitario che si domanda e racconta nei testi ciò che si vede nell’aldilà, dopo la fase rem, un dipinto di De Chirico che si muove tra chiaro scuri esistenziali e concentrici.

Ecco allora che il vuoto viene riempito dalla spazio circostante e l’atterraggio versò ciò che non conosciamo sta per avvenire, le mutazioni sono dietro l’angolo e ciò che ci aspetta oltre il sonno si racconta e si fa raccontare quasi rendendoci partecipi di questa meraviglia a occhi aperti.

St.Ill – The Kingdom is coming (Factum Est Records)

Image of St.Ill "The Kingdom is coming"

St.Ill come in una fiaba il regno sta per arrivare, quelle favole del passato riportate nel presente e per l’occasione rese più acide e incomprensibili, richiamando stagioni e uccidendo ansie che opprimono, ritrovarsi tra le molecole d’aria e creare connubi e sodalizi che non sempre riescono tra le band, ma si concedono e traggono profonda capacità di improvvisare e soprattutto sperimentare.

Continua la produzione da parte della Factum Est, parte essenziale della Jestrai Records, di dischi molto underground, quelli che piacciono a noi che si appropriano di un pensiero e lo esprimono attraverso molteplici significati, che radiosi come aurora luccicante si scambiano impressioni prima lasciate al caso ora lasciate quasi all’improvvisazioni se non altro per l’uso di strumenti inusuali e conditi da voci in delay furioso e impastato amalgamando la scena dietro a tende coprenti.

Il regno sta per arrivare, noi siamo il regno ci dicono gli St.Ill, ci fanno contorcere con dissonanza e ci portano in un mondo tutto da scoprire, lisergico, che ingloba la psichedelia anni ’70 e approda ai giorni nostri toccando Sycamore age, comprimendosi fino all’incendio finale di _54.

Un disco che a volte suscita stupore, deformando lo specchio della vita e consegnandoci ballate degne del Bianco dei Beatles, un album che riesce ad ogni ascolto a pervadere l’aria di nuove forme sonore, costruendo strutture anacronistiche ed estemporanee, fruibili e coscienziose.

 

Daniele Leoni – Piccoli segreti (Autoproduzione)

Aprire lo scrigno dei segreti, lo scrigno dell’infanzia, quella parte di bambino che è dentro ad ognuno di noi e si concentra, si fa viva, raccoglie l’eredità di pianisti come Einaudi e si pone a metà strada tra il conterraneo Andrea Carri e il campano Bruno Bavota, sia per scelte stilistiche, sia per approccio minimal pianistico, dolce e rarefatto a ricreare onde in divenire, in costante abbraccio con il nostro essere, con il nostro stare, esigenza quindi di comunicare e far riemergere un insieme di ricordi, passioni e vita dentro ad ognuno di noi, cogliendo l’attimo, soppesando le note, facendo chiarezza interna.

Velata malinconia il marchio di fabbrica di Daniele Leoni, una malinconia buona a ricoprire pensieri, a fare da sfondo alla purezza del cuore, un morbido abbraccio adolescenziale che racchiude titoli alquanto significativi per una poetica che per una volta non colpisce con le parole, ma corona l’insieme di note: Portami via con te, Il primo bacio, Nel profondo dei tuoi occhi, istantanee di vita vissuta e poi giù giù a scorrere l’Infinito.

Potrebbe essere la colonna sonora per un film Piccoli segreti, invece fa parte di quei dischi che sono colonna sonora della nostra vita, quelli che attacchi al mattino in auto o quando torni a casa la sera e ti fanno allontanare per un momento dal grigiore, ti fanno ricordare l’infanzia e quel bimbo ancora vivo dentro ad ognuno di noi.

Le urla tra gli alberi – S/t (Autoproduzione)

Canzoni nella nebbia, sfocate e lasciate inumidire pian piano fino a comprimersi, esigenza sonora che parte dal passato, che si fa generazione, che raccoglie gli stimoli degli anni ’90 soprattutto nel campo italiano con i Kuntz su tutti per sancire una raccolta di profondità attesa, sperata e vissuta, ammaliando per dissonanze arricchite e chitarre da tappetto Gishiano di fine ’80 per tre canzoni che parlano di attimi e sensazioni parallele in costante mutamento e ricerca spasmodica di sostanza da rendere viva.

Le urla tra gli alberi si confessano Iride, Danni sul precipizio e Coma ricordano qualcosa dei primi Verdena, in fatto di suoni accumulano lo sporco tra le corde della chitarra e abrasivi come non mai si lacerano in una contemplazione cosmica che cede il passo al futuro che verrà, ricco di soddisfazioni certo, grandi rimonte e stimoli sempre nuovi; l’essere sulla buona strada alla volte non vuol dire nulla in questo caso però vuol dire tanto.

Diana Winter – Tender Hearted (BProduzioni)

dian winterRitorno di gran carriera per Diana Winter, ricordata dai più per qualche talent show in passato, esplode con questo nuovo disco Tender Hearted a ricucire il tempo perduto e a lasciare spazio ad incursioni introspettive che rendono l’ascolto dell’album una sorta di viaggio dentro le emozioni contrastanti di ognuno di noi, un bene e un male assoluti che si amalgamano a comprimere sogni, elargire speranze, dare nuove possibilità.

Forte capacità espressiva dunque e grande lavoro di cesello per questo disco prodotto tra l’Italia e l’Inghilterra, frutto di un’opera e di un lavoro non indifferente ed esteso fin qui per sottolineare una forte dose di coraggio ed esperienza che oltre ad essere voce importante non solo per la Giorgia nazionale è anche un abbraccio alla musica d’oltremanica e d’oltreoceano; una chitarrista con una voce stupenda e graffiante che mescola le carte in tavola e sa conquistare al primo ascolto, un ritmo incalzante condito dall’intimità di alcuni passaggi fa di queste dieci tracce un’esperienza da vivere e rivivere.

Supportato da collaborazioni importanti come Phil Gould dei Level 42, Neil Black, Rupert Brown e Al Slavik questo disco sembra ricondurre al passato ammagliando il futuro, un utilizzo della voce sopraffino e i cori sempre presenti e puntuali ricchi di quel contrappunto canoro che con vivacità colora l’iniziale A better me fino alla chiusura che si impone di essere anche critica sociale nei confronti del nostro Paese, affidata ad April Line.

Un disco vissuto, un’anima che si racconta senza mezzi termini, la convinzione di essere utilizzatrice capace delle proprie possibilità; ammirevole gesto di eleganza in questo mare musicale tante volte privo di punti stabili e di fari verso cui andare.

 

Recattivo – 13000 giorni sulla terra (Autoproduzione)

Granitiche sonorità che aprono il nulla e si fanno portatrici di un suono accattivante che fa pensare al miglior rock americano del ’90 passato, con influenze che si articolano nello stoner elettrico, contaminato dall’esigenza di far rinascere il grunge di Seattle e tutta la scena alternativa con capacità espressiva da primi della classe  forte ispirazione che attinge direttamente radici in un contesto favorevole all’esprimere un genere più volte ricostruito e atteso.

I nostri però sono carichi di una evidente dose di coraggio ed esperienza che li vede attivi dal 1997, dopo cambi di formazione ed esigenze di esprimere in lingua italiana i propri stati d’animo e confessando all’ascoltatore una propria forma di introspezione che si evince da testi diretti che raccontano la vita di tutti i giorni e del vivere in questa terra a tratti altamente inospitale.

Sette canzoni che scivolano veloci, canzoni che hanno la necessità di essere riascoltate per essere immagazzinate; decimo lavoro per il combo padovano, un marchio indelebile, un’alternanza di vivacità espressiva condita da testi in italiano che fanno centro.