Abusivi – Ancora Rock’n’Roll (Autoproduzione)

Abusivi @ Home Festival - Treviso, Italy

Ruvido energico, da ascoltare in un solo fiato, una catena di eventi che si fanno racconto e parlano di noi, parlano del nostro essere al mondo e tentano di farci smuovere le coscienze, di togliere gli ormeggi alla nave attraccata al porto, quella sostanza che deve essere portata dal mare, dalle onde che fanno parte di ognuno di noi, una musica che ci permette di portare il passato nel presente, quella musica che ad ascoltarla bene racchiude molto di tutto ciò che amiamo.

Gli Abusivi fanno un buon rock, incrociando FASK e Ministri, consegnando una prova che si ascolta tutta d’un fiato e si getta nell’oceano più impetuoso a raccogliere perle nei fondali marini, dove nulla è come sembra e il disorientamento iniziale via via procede lungo una strada incanalata che sa di aggressività genuina e vissuta.

Loro vengono dalla provincia di Padova e hanno calcato i palchi dei festival più importanti del Veneto con un rock senza frontiere, americanizzato che va diritto al punto della questione e grazie a testi sempre semplici e schietti sono capaci di entrare con prepotenza cavalcando l’onda del bisogno di partire.

Le canzoni si fanno presto ricordare da Ancora fino alla meraviglia di Piove Alcool passando per Neo Melodico e il finale denigratorio con Facebook e Tassativo.

Un disco che è il succo di un’energia che poche band sanno di avere, sentiremo parlare ancora di loro e quel giorno sarà un giorno importante, il giorno in cui anche noi salperemo.

Uragano – #2 EP (DreaminGorilla/Stay Home Records/Taxi Driver Records)

Lasciati qualche tempo fa con lo split assieme a Gli altri, i nostri questa volta tornano da soli, lo fanno con energia e sapienza di aver raccolto, capacità espressiva da regalare e quella manciata di aggressività che non guasta per questo progetto che mescola hardcore, postrock con lo screamo e una velata capacità di raccogliere l’eredità del passato per trasformarla in modo grandioso.

In queste cinque canzoni che scorrono alla velocità della luce c’è l’esigenza di tornare, l’esigenza di sommergere le città e trasformarle, catapultando il tutto a una nuova realtà, questi pezzi sanno di cemento e incorporano al loro interno una forza che dal vivo può veramente fare del male, un sound spigoloso ed eccentrico, ma che mira alla sostanza.

Prendi Il Buio e mescola con At the Drive anche un po’ di Fugazi e La quiete ne esce una sorta di post hardcore bello suonato che consegna agli ascoltatori un’attenzione intrinseca nel particolare che si scioglie in poco tempo in pezzi come Vomito, la riuscitissima Inferno e poi giù fino alla personale Occhi, L’America e nel finale la chiusura affidata a Gabbiani.

Un disco che non cerca le mezze misure ed è giusto così, la realtà è vivace e pronta a dare sapore di nuovo in qualsiasi momento, le invenzioni sono tante e le capacità molteplici, lasciamo questa band al tempo che verrà e quasi sicuramente non ce ne pentiremo.

Hard Reset – Machinery & Humanity (SlipTrickRecords)

Un lavoro completo ricco di sfumature e capace di donare vitalità e capacità espressiva per la pura contemplazione estetica, per un forte accento su un rock che fa centro nel cuore di chi ascolta e consegna una prova che mescola con stile i fine ’80 con il pieno dei ’90 tra chitarre grintose e tanta sostanza che vuole comprendere e lasciare spazio al futuro.

Gli Hard Reset sono in tre, i numeri qui fanno la differenza, l’essere in pochi ha permesso di focalizzare gli elementi comuni e indivisibili per consegnare una prova ricca di trascinamento e passione, toccando i vertici della scena grunge di Seattle per passare definitivamente ad un rock più moderno che abbraccia Deftones e in parte anche la musica di Matthew Bellamy e compagni, in una sorta di rock spinto in chiave moderna che trova in divenire una propria evoluzione.

Il rapporto della macchina con l’essere umano, la meccanica che si fonde con l’anima per cercare una chiave di appartenenza anche se l’esito risulta essere di difficile interpretazione, temi profondi che parlano di amori che si conficcano nella carne e gesta quasi eroiche a parlare di un mondo che forse un giorno verrà, un mondo che ancora non è dato conoscere, ma che si ritrova lungo le parole che compongono il disco.

Un album fatto di sudore quindi e tanta energia, sviscerale capacità di infondere un qualcosa grazie ad un power trio che da spettacolo e incanala la potenza dell’atto in un movimento meccanico sfumando la luce che un giorno vedremo.

Celeb Car Crash – Mucha Lucha ! (SlipTrick Records)

Un mini ep consegnato agli ascoltatori come materiale esplosivo pronto a far scoppiare ogni qualsivoglia forma di compostezza e affabilità per creare un circolo di commistione tra diversi generi dove il punk rock di matrice americana si scontra con le chitarre acustiche che appaiono pronte a rendere omaggio ad uno stile contaminato ad un piglio alternative, poco legato a determinati binari, ma sempre pronto a stupire e a lasciarsi accostare , tra parallelismi d’oltreoceano e situazioni in grado di elargire speranza e  nuove forme di interpretazione.

Una voce personalissima che puntualmente pone gli accenti su motivi che si fanno cantare e si fanno soprattutto ricordare, tra l’intro acustica di Because I’m sad, passando per la bellissima Next Summer e finendo con Adios Talossa! che nasconde un tututu nel ritornello capace di avvicinare anche il più intimorito degli ascoltatori.

Un ep che non va valutato per originalità, ma piuttosto per capacità di ridare un senso oltre i confini di un genere che in Italia è solo copiato; grazie quindi ai CCC per aver contribuito a sviluppare, abbandonando le certezze, uno stile proprio che sa di futuro per i prossimi dischi.

Soulspirya – Stay Human (SlipTrickRecords)

Anfratti gotici che lasciano il segno in contemporanea allo spegnersi del sole, perpetuando le ombre in mobilità apparente, in stato accecante e confusionale, dove le onde del mare si appropriano del tempo rubato, donando calore e intensità a questa prova che sa di alternative studiato e calibrato, la solitudine centrale dell’essere umano e la continua ricerca di nuove sperimentazioni sonore.

In bilico tra Lacuna Coil, Portishead e Muse dei primi dischi il duo veneziano prosegue la ricerca di nuove abilità compositive che si possono ascoltare lungo le undici tracce dell’album, dando maggior risalto ad un’internazionalità di spicco pronta ad entrare prepotentemente in territori inospitali, rendendo il tutto una via di fuga verso una casa che ancora  stiamo cercando.

I testi esistenziali si fanno appiglio al colore seppia oscuro di un’immagine in dissolvenza e già dal primo pezzo We are coming  i nostri affrontano in totale libertà il loro entrare di diritto verso terre che ci appartengono, che fanno parte di ognuno di noi, creando quel connubio musicista/ascoltatore che permette di proseguire l’ascolto con attenzione, passando per riuscitissime The tunnel, Fading away, We will be alone fino al finale di The night before.

Un disco che racconta la solitudine dell’essere umano, lo fa toccando le aspirazioni dell’anima e quei muri che inevitabilmente ogni giorno troviamo davanti a noi, lo fa con rispetto verso il mondo ingabbiando quella solennità tipica di un genere che via via ci si ritrova a combattere per uscirne vivi, ancora una volta, come quelle onde del mare, laggiù all’orizzonte, tra uno scoglio silenzioso e la luna che governa le maree, quasi ad essere la padrona della notte: l’essere umano e il suo lato oscuro, l’essere e l’oscurità.

Animation – Machine Language (RareNoise Records)

Schermo vuoto davanti a noi, cinema disperso nella nebbia, passato che si trasforma e condensa le gelide piogge autunnali raccogliendo foglie per colorarle e darle in pasto alla primavera, odore di ferrovia lontana e sapienza che si trasforma in arte , il tempo che acquisisce un valore sensazionale e una strumentale discesa verso mondi nascosti ci porta alla sapienza di Bob Belden, morto il 20 Maggio scorso, lasciando ai posteri l’ultimo album con i suoi Animation.

Un disco composito e composto fatto di accorgimenti letterari che passano da Philip K. Dick fino a Iain M. Banks, dalla voce narrante di Kurt Elling che di spazialità ne ha da vendere, fino ad incontrare riferimenti visivi che approdano  nell’attraversata cosmica di 2001 Odissea nello spazio in grado di rendere il momento rarefatto, in grado di scorgere dal profondo l’intensità della luce.

I riferimenti sono perennemente ambiziosi e musicalmente c’è un intreccio di jazz condito da musica ambient e testi che danno vita al pensiero di Belden in una narrazione che si fa intreccio e comprensione tra mente umana e mente artificiale.

Un disco grandioso, che va oltre l’idea di musicalità e si incasella in una filosofia post esistenzialista in grado di farsi largo trascendendo l’immaginazione e cercando una nuova forma di comunicazione oltre lo spazio conosciuto, nel profondo di un qualcosa che non siamo ancora in grado di capire.

Wonder Vincent – Fiori (Autoproduzione)

Prendete i primi Smashing di Gish, aggiungete un tocco di post grunge americano e condite il tutto con la follia degenerativa dello stoner impreziosito dall’incontro con Vincenzo Sparagna direttore di Frigidaire/Il Male per dare vita ad un gruppo prima e ad un album poi che contiene quella potenza reazionaria in grado di dare un senso perenne al nostro lottare, quel senso di libertà che non è incasellato in un confine ben delineato, ma che si fa portatrice di rabbia contro il sistema, una rabbia pronta ad uscire già dalle prime note.

Un disco realizzato nell’autoproduzione più totale dove i Wonder Vincent hanno avuto la possibilità di sperimentare e sperimentarsi, un quadro analitico fatto di contrapposizioni sonore che verso la fine del disco si aprono a lisergiche melodie acustiche, acide quanto basta per essere condite da un folk Barrettiano e memorabile; visione di luce profonda in una triste mattina d’inverno.

Il resto sono grida di ferocia e intensità che non colpiscono solo allo stomaco, ma anche al cuore, trasformando il già sentito in una sorta di parabola ascendente verso mete difficili da riproporre, in grado di coinvolgere e di portarci all’interno di un continuo cambiamento.

1 disco, 3 amici e 13 canzoni, 13 varietà di fiori che si contendono il primato nell’immergere il proprio gambo nell’acqua della vita, prima che appassiscano, prima di essere scordati per sempre, in uno spazio temporale così vicino alle nostre ambizioni e così lontano da ogni forma di inutilità vissuta.

Jarred, the caveman – I’m good if yer good (Stop Records)

Disegnando paesaggi sonori che si stagliano tra le deserte territorialità oltre i confini e pizzicate da corde metalliche che si chiudono in un sussurro, che si aprono al niente che circonda e ingloba lasciando gli attimi di introspezione a concedersi e a ridare dignità e costanza ad un progetto di notevole impatto emotivo che si apre al mondo circostante e osserva attentamente, osserva il rinascere dell’alba ad un nuovo sospiro, ad un nuovo attimo da catturare, come fotografia polverosa, istantanea raccolta e vissuta grazie ad un folk che vive di vita propria e si fa portatore di un suono prettamente americano in bilico tra Fleet Foxes e Iron & Wine pur non dimenticando la dimensione indie di base che aiuta nella difficile impresa di essere personali in tutto e per tutti.

Queste 11 canzoni sono legate dal filo rosso dei ricordi e i Jarred, The Caveman ne sono la conferma vera e tangibile di quel passato che non vuole e non deve essere dimenticato, nell’attesa che i sogni possano prendere il volo e divincolarsi per un attimo lasciando quel senso di smarrimento dentro ad ognuno di noi.

Non mancano, agli attimi di introspezione, scenari di matrice più coinvolgente e spensierata in grado di ribaltare il modo di intendere la musica e di dare un senso maggiore grazie ad una voce in primo piano che stupisce per bellezza e incisività.

Ci sono i testi e ci sono pure le canzoni, ora i nostri possono entrare di diritto nel panorama indie folk nostrano e non, una band capace di creare dal nulla forme inusuali, ma presenti, che si lasciano sollevare nell’aria come fossero nuvole di buoni propositi.

Gonzaga – Tutto è guerra (Autoproduzione)

Gonzaga è un nome che suona bene, vuoi per il legame diretto con un qualcosa del passato che fu e vuoi per un’assonanza con qualcosa di famigliare, che ti è vicino, che fa parte dell’arte nel senso più stretto del termine e che in qualche modo fa da ponte tra passato e futuro.

I nostri però non provengono da Mantova, ma dalla Toscana e fanno del rock una sorta di svolta verso la sperimentazione sonora che con gran classe direi io, si avvicina a territori indie con venature pop nella forma canzone, fatta di strutture ben definite, ma che al proprio interno racchiude una potenza devastante che stupisce per energia e capacità di creare pezzi orecchiabili che si possono amare già dal primo ascolto.

L’elettronica è usata con parsimonia, quasi fosse un lontano tappeto sonoro, le chitarre invece sono fragorose e incanalano un suono riconducibile alla band creando uno stile che sicuramente, con gli anni, diventerà marchio indelebile.

Un disco che già dal titolo fa presagire contenuti, sono rari gli artisti che possono permettersi di creare un qualcosa di esteticamente bello e convincente e associare al tutto parole taglienti che si conficcano nella carne e raccontano di un’Italia alla deriva.

Il Paese delle apparenze dove tutto è osannato e portato sul palmo di una mano, lassù in alto, in cerca di un cielo migliore, anche se poi ciò che si coglie dal disco è un’amarezza di fondo che si ascolta in pezzi memorabili come Minotauro, Tragedie annunciate, la stessa Tutto è guerra con quell’intro che ti accarezza e poi via via tra le magie fanciullesche di Abracadabra e il finale affidato a Odio tutte le parole e Niente è più come prima.

Un album che finalmente riesce a intrappolare l’energia dei Ministri con la sperimentazione dei Verdena, passando per la scena indie americana e concedendo di fatto una prova che apre le porte a molte strade; un gran disco, tra i più riusciti del 2015, augurandomi di sentire parlare ancora di loro, magari in un’Italia diversa, magari in un’Italia migliore.

 

Ventruto – Positività Sociale (Latlantide/Edel)

Cantautore sopraffino che va oltre il concetto di musica d’autore mescolando stili diversi con grande esperienza e precisione e consegnando agli ascoltatori una prova dal piglio deciso che sottolinea l’importanza dei testi, l’importanza della parola che alle volte sembra dimenticata e invece segna spazi e convince fino a crescere in esplosioni sonore grazie anche alla collaborazione di gruppi come Gang, Modena City Ramblers e la presenza di Alma Manera, Alessandro De Gerardis e Marco Carena.

Una grande famiglia quindi che aiuta Ventruto a risalire e ad abbattere il pregiudizio concentrandosi su di una musica dalle parole mai scontate che lasciano un segno di speranza e fanno capire che il materiale, ciò che possiamo toccare non ha nulla a che fare con i sentimenti, quelli veri; il cantautore invece li valorizza, li racconta in storie di tutti i giorno consegnandoci una prova personale e carica di attese.

Dieci pezzi e due bonus tracks partendo con Un pregiudizio per finire con Una maschera, lasciando le ultime due tracce bonus a ridare un senso al già ascoltato in un rifacimento privo di collaborazioni, ma che sicuramente merita attenzione particolare per la grazia concessa.

Un disco che si proietta nel presente, che parla di questa società e che invita gli ascoltatori a non tirarsi mai indietro e a lottare fino alla fine dei giorni.