Earthset – In a state of altered unconsciousness (Seahorse Recordings)

Disco d’esordio per la band nata a Bologna che coniuga in maniera del tutto personale un’attitudine punk alle incursioni psichedeliche che si diffondono nell’aria passando per quel gran concentrato chiamato indie music che basta e avanza a riempire un mondo intero.

I nostri amano spaziare, amano giocare con i suoni e in un attimo si è trasportati in un’altra dimensione comodamente restando seduti, la variegata eccentricità del quartetto si evince soprattutto nella capacità di creare immagini che permangono nel tempo, un incontro tra filosofia e psicoanalisi, alla letteratura fino a toccare le scienze politiche, un bignami di maturità quindi non solo stilistica, ma anche nelle parole, nei testi che sempre più veicolano l’ascoltatore nello scoprire qualcosa di più, qualcosa che rafforza e si rende necessario per comprendere le varie stratificazioni che appaiono e scompaiono, un andare e venire guidato dal tempo, mera conclusione soggettiva di un cammino che continua per sempre.

Ecco allora che i suoni si fanno solidi e tangibili con l’apertura chiamata non a caso Ouverture, finendo con la chiusura del cerchio marino in Circle sea, definendo una linea guida che si perde nella nebbia e da la possibilità ad ognuno di noi di prendere il meglio da questa favola in bianco e nero, che si propone di distruggere il sistema per poi ricomporlo, ripartire verso la speranza: una luce nuova tra foreste inospitali, ma ricche di vita.

Design – Daytime Sleepwalkers (Tic Records)

Design artwork

Tanta capacità espressiva e cura del particolare che si conficca in carne viva lasciando posto al nulla che avanza, stratificando la proposta con echi di new wave anni ’80 incastonata  come diadema con il miglior industrial moderno, strizzando l’occhio a Einstürzende neubauten, un suono deciso e sintetizzato senza paura di osare e forte di quella capacità di spingere oltre la mente umana, in un complesso di palazzi industriali fatiscenti e lasciati a soccombere al tempo.

Una musica malata, una musica dei nostri giorni cantano i Design e si articolano in un gusto per il gotico che non lascia scampo a mezze misura di sorta o di convinzione, una capacità intrinseca quella di questa band di trovare con facilità la forma canzone perfetta nonostante un approccio non sempre facile; musica che suona però architettonicamente divincolata dalle proposte odierne, dal forte sapore internazionale che non sfigurerebbe in qualsiasi classifica d’oltreoceano.

Voodoo Doll è energia allo stato puro, pronta ad incassare gli applausi d’apertura e la capacità di suonare maledettamente bene, lasciando l’avvento di My recurring nightmare, quasi di sorpresa e poi via via le 12 tracce sono un quadro a tinte forti di bravura esposta tra collaborazioni con KMfromMYills e Alessandro Apolloni negli arrangiamenti di puro impatto in Maybe.

Un disco che apre alla parte più oscura di noi, incanala un sapore ormai perduto e ci fa riflettere sulle potenzialità delle band italiane, in questo caso i Design, in grado di dare voce ad un proprio sfogo senza copiare nessuno, ma mantenendo una costante di internazionalità dal carico pesante e fruttuoso, tempo al tempo disse qualcuno e un giorno anche noi vedremo.

Vincenzo di Silvestro – Invisibile la felicità (Autoproduzione)

Una luce che proviene da lontano e ci accoglie, ci abbraccia e costantemente ci porta in un mondo dove l’introspezione sonora è pane quotidiano per questo violinista che si scopre cantautore, una prove di coraggio che amalgama uno stile mediterraneo ad arrangiamenti che abbracciano la cultura sanremese calcando la scena con passi discreti e dove le voci femminili sono cassa di risonanza per le continue emozioni che questo disco sprigiona.

Il diventare adulti in otto tracce, attimi di felicità svelata che si consumano e che prima o poi rischiano di intrappolarsi in una rete, come pesci di mare, senza speranza, ma che hanno come unico sostentamento questa musica, in grado di dare nuove possibilità e soprattutto nuove scelte da scoprire.

C’è lo zampino di Cesare Malfatti in questo disco e soprattutto nel primo pezzo, radiofonico più che mai, ma elegante e sussurrato che vede alternarsi la voce di Vincenzo con quella di una Liquidara non preponderante, ma dosata e delicata in un brano che si fa riascoltare senza stancare: Domani è Domenica è la canzone del provare, del tentare a far qualcosa di nuovo in un paesaggio estivo descritto inevitabilmente dai sentimenti, quelli veri, che ti fanno guardare negli occhi la persona amata e dire è il momento di partire.

Il tema del viaggio, il desiderio di essere diversi per sempre o almeno per una volta, un caldo abbraccio per l’autunno che verrà dove  la voce di Ilona Danho è altrettanto sospesa quanto incisiva in Vieni qui, ancora un abbaglio, un raggio di sole ancora e l’oscurità pian piano arriva, sospesa tra La Crus e un Niccolò Fabi degli esordi a trasformare la sofferenza in un diario ricco di appunti e di note.

Un disco con arrangiamenti magistrali, sempre pronti a riempire la scena con grande gusto, un cantautore che si è in qualche modo scoperto, ha trovato la strada e tenta ogni giorno di non abbandonarla vivendo.

Case di Vetro – Sete (Marsiglia Records/DgRecords/Wasabi Produzioni)

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Le Case di Vetro sono alla ricerca di un loro modo di fare musica, uno stile che vuole andare oltre il già sentito, contaminando di capacità duratura diversi sottogeneri che abbracciano sia le produzioni migliori alternative degli anni ’90 sia quel gusto per l’elettronica non esagerata che accomuna dischi di nuova fattura.

Le Case di Vetro si mettono in gioco, sono cinque ragazzi di Genova, che percepiscono i mutevoli cambiamenti umorali per consegnare una prova che prende forme diverse ad ogni ascolto intascando  atmosfere che si dipanano tra post rock sognante, passando per lo shoegaze e la passione per l’alternative del fine secolo precedente in un continuo intreccio di artistiche presenze che si rendono partecipi di un qualcosa di grande.

Il grande che i nostri stanno costruendo fa parte del viaggio che interessa ognuno di noi, i cinque abitanti del nostro tempo alle prese con vicissitudini e sistemi da abbattere, consapevolezza sonora in cerca di un proprio stile che apre ai canali introspettivi dei Radiohead, passando per Flying Saucer Attack e il gusto per la poesia che si esprime nella sua alta concezione di parola in musica nei cinque pezzi che compongono questo EP.

Sete sembra tutto ciò di cui abbiamo bisogno, è l’eterno tornare di una fonte vitale alla città natale, è il costruirsi per essere migliori, è quel bagno lungo una vita che ci rende capaci di affrontare immagini di un tempo che verrà, trasportati dalle onde come gabbiani nella tempesta.

Luoghi Comuni – Chi ben comincia (Phonarchia Dischi)

Sbattere la realtà in faccia, la realtà che ci opprime renderla tale solo ascoltando delle note, lasciando tutto indietro alle nostre spalle e scaraventarci in un mondo, il nostro, che ci vede compiacere di prodotti materiali effimeri che via via si esauriscono come la materia di cui sono fatti.

I luoghi comuni raccontano i sogni spezzati di ognuno di noi, lo fanno raccogliendo le voci di una generazione e lo fanno anche bene, mescolando la musica “moderna” post cantautorato anni zero con una commistione di generi che abbraccia il brit pop ben riuscito e trasportandolo in una dimensione tutta italiana che ricorda gli Zen Circus degli esordi.

Un pop rock aggressivo che ammicca alla sostanza, che vuole raggiungere una conquista personale, un gesto che scende a compromessi, sfiorando Ministri e facendo della schiettezza un punto di forza su cui basarsi per le produzioni future.

Lisa, L’alternativa e poi Alzati passando per Il ballo di San Vito interpretata con alto trasporto finendo con a Metà dell’opera , quasi a sancire una forma di esigenza nel continuare il cammino intrapreso, nel farsi portatori di un qualcosa che al momento è ancora incompiuto.

Bel disco che arriva diritto al sodo, abbandonando i fronzoli e ridando vita ad un genere, ad uno stile che ha bisogno di una vitalità intrinseca per essere continuamente parte vitale di ognuno di Noi.

Ophiuco – Hybrid (SeaHorse Recordings)

Elettronica di grande respiro che si apre a territori inesplorati lasciando spazio ad una capacità espressiva fuori dal comune che da internazionalità alla proposta e abbraccia per certi versi le incursioni sonore di Lali Puna, Massive Attack e i nostri Amycanbe in contesti di sovrastrutture eleganti e mai scontate capaci di dare profondità ad una musica che non sembra facile ad un primo ascolto e dove la forma canzone è delineata a poco a poco quasi a volersi svelare in tempi delicati lasciati al tempo.

I nostri Ophiuco provengono da Varese e concepiscono il loro Ibrido in formato fisico per l’etichetta del cavalluccio marino sempre attenta a spaziare in territori diversi e sempre nuovi garantendo un’offerta nella proposta varia e incisiva.

Dieci pezzi che sono la trasposizione di ciò che si vede camminando nell’oscurità, un viaggio cosmico che abbandona l’essenzialità per mettere in atto, dar vita, ad una macchina con i sentimenti, quelli veri, che trasportano il buio in una dimensione terrena capace di raccontare e raccontarsi.

Il cammino si apre con Desert per chiudere il cerchio con Game Machine, un gesto di percezione che ingloba un pensiero circolare e ammaliante, un grigio accecante dentro ad un contesto che ci rende sempre più vivi, sempre più leggeri e pronti ad accettare qualcosa che va oltre le nostre capacità sensoriali; questi sono gli Ophiuco: elettronica soppesata per canzoni ad effetto che permangono nel tempo.

Orlando Manfredi – Duemanosinistra – FromOrlandoToSantiago (Mexicat Records)

Il disco del viaggio che scorre come acqua dentro ad ognuno di Noi, il disco del cambiamento che parla di una cammino interiore dentro a qualsivoglia spazio costruito, fatto apposta per essere scoperto e ribadito a gran voce con piglio deciso, capacità organizzativa e arrangiamenti che a dire stupendi è gran poco, partono dal minimale per poi aprirsi a spazi di eterna introspezione creando una meraviglia che via via ci consente di dare vita ad una trasformazione che parte da noi stessi, ci consente di partecipare ad un qualcosa di più grande e da al cantautorato un senso maggiore, una nuova svolta più incisiva e rilassata, i pezzi prendono forma e si lasciano andare, si fanno ascoltare, sono opera mutevole di un passato che ci appartiene.

Allora le speranze cedono il passo alla ragione e via via le collaborazioni si fanno più strette e importanti, Attaccavano un’acciuga con i cori di O.P.S., la bellezza di Fulgida Stella con i Fratelli Mancuso, La grande migrazione assieme a Nadar Solo e Fabrizio Cammarata in Will machine, canzoni dai testi ben bilanciati che non trovano la rima facile, ma si fanno accarezzare portati dal vento.

Un disco incantevole, che tocca il nostro interno e lo fa in modo lieve, lo fa concentrandosi e sviluppando un rapporto, quello tra uomo e natura, tra uomo e sentimenti, che sempre più sono chiamati in causa nell’era moderna, per essere al centro, ancora, di qualcosa di vero.

Un cantautore esemplare che potrebbe fare scuola.

Muna – Sospesa in volo (Autoproduzione)

Testi che divagano tra i territori del rock di matrice italiana che attraverso arrangiamenti impostati si ritagliano un posticino di nicchia in sovente divenire, marchio di fabbrica dei Muna che raccolgono l’eredità di gruppi come Litfiba, per citarne uno a caso e sconvolgono, in parte, le carte in tavola, confezionando un disco dal sapore di già sentito se non per una predisposizione all’arrangiamento sonoro che crea continuità nella ricerca di un proprio stile, una ricerca che si imbatte oltre il rock più classico per toccare apici di progressione nel vero senso del termine amalgamando esigenze e ricostituendo uno stile che sembrava dimenticato.

I Muna vengono da Roma e grazie a questo disco ci regalano una prova onesta che si muove tra terra e cielo, tra una continua e costante ricerca di buone intenzioni che vengono calcolate in strutture solide e compresse con testi semplici e diretti, incorporati a tal punto da lasciare in disparte il citazionismo e andando diretti al nocciolo della questione in una sorta di trance eliocentrica dove il ruotare vorticoso è punto comune in tutti e dieci i pezzi.

Canzoni sull’attualità e canzoni sul domani, che parlano di amori che non ci sono più e rapidi cambiamenti umorali che nascondono al cuore ciò che più si desidera tra l’apertura in Sospesa in volo e il finale introspettivo di Aeroporto Falcone Borsellino.

Un album fatto di soggettività apparente che stabilisce i fondamenti del rock aggiungendo un tocco personale e carico di energia capace di incanalare i pensieri verso un qualcosa ancora di indefinito e lontano.

Zivago – Lo Specchio (I Dischi del Minollo)

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Gli avevamo lasciati con l’Ep Franco di qualche tempo fa e ora il duo milanese, composto da Lorenzo Parisini e Andrea Zonescuti, ci regala una prova di coraggio che abbandona per certi versi i territori esplorati con il precedente album per confezionare una fatica raffinata e di certo non banale capace di partorire sogni ad occhi aperti e farti entrare proprio dentro a quella fiaba che è la vita, dalla porta principale.

I racconti degli Zivago però non sempre hanno un lieto fine, si soffermano anche sul lato oscuro di ognuno di Noi, dando al disco quel sapore di compiutezza e capacità alternativa di attingere alla cultura popolare alcuni riferimenti necessari, catturando l’attenzione di chi ascolta per poi rimescolare le carte con elementi meno conosciuti, più introspettivi, che entrano però di prepotenza in un contesto da analizzare.

Musicalmente ci si approccia al cantautorato italiano condito da un’elettronica elegante e sempre ben calibrata, incentrata non sull’enfasi, ma sul giusto esserci senza stonare, un disco che con raffinatezza racconta gli innumerevoli specchi rotti che infrangiamo vivendo, di quel sangue che scorrendo fa paura, ma nello stesso tempo fa parte di noi; è elemento essenziale per renderci vivi.

Nove tracce, tra cui La gatta di Paoli, qui migliore dell’originale, in un sali scendi emozionale che si ricorda, dando al cantautorato italiano una speranza sempre più vera di ritornare con prepotenza ai giorni migliori, quando le canzoni meritavano di essere cantate perché acquistavano un senso diverso per ognuno di noi.

Felidae Trick – Working Hard (Lichtenstein Music)

Il nuovo disco di Omer Lichtenstein è un concentrato ep di indie rock che raccoglie l’eredità del passato incanalando la new wave con l’oscurità di Editors e Interpol in una formula certamente riuscita, dando vigore e sostanza in una costruzione del suono ben cesellata che si esprime per quantità e qualità della proposta.

Sono cinque tracce che spaziano e parlano di ciò che ci appartiene, riflettono un mondo che si trasforma in pagine di un libro pronto per essere raccontato, raccontano di paesaggi desolati e si soffermano sulla difficoltà di diventare e di trovare una figura culturale di riferimento arrangiando un set acustico che per l’occasione si apre in scintille cosmiche irrazionali e pronte per essere esplose.

Still burning fa da apripista sonoro per passare rapidamente a Laying on the sky circondata dall’aurea di Romantically High, via via rincorrendo i sogni di She ain’t rock and roll e nel finale avvicinando le ombre di The Felidae Trick.

Una manciata di sogni post rock inespressi e un solitario andare e vagare verso mete lontane, un disco che crea atmosfere e lo fa in modo egregio, tra poesia in rock e quell’incedere misterioso di un prode guerriero solitario in cerca di una strada da lasciare a chi verrà.