Giovanni Dall’Alba – Once

Poesie crepuscolari in terra vicentina per questo lavoro del cantautore Giovanni Dall’Alba che raccoglie l’eredità di Glen Hansard e Sun Kil Moon per una manciata di canzoni introspettive fatte di chitarre prettamente acustiche e una voce ad impreziosirle, canzoni che parlano di amori lontani, dimenticati e strade da percorrere dove l’occasione persa è riflessa in un mondo in decadenza e da ricomporre.

Una stanza, il gatto sul tappeto e il pensiero che guarda oltre; le canzoni poi prendono forma lasciando tramonti dietro le spalle.

10426229_884808998218314_874631160961300229_nI silenzi sono vitali per accogliere i pezzi che arrivano, poche manciate di accordi e arpeggi, un lavoro home made dove la sostanza supera la qualità in cui i cuori infranti e da ricucire lasciano spazio a piccole incursioni sonore dove la dimensione cantautorale prende il sopravvento creando il nulla attorno e concentrandosi solamente sulle parole, poche parole sussurrate ed esposte alle intemperie del tempo.

Otto pezzi quindi che si avvicendano in un chiaro scuro tra Out of the blue, Once, Johnny be good, il blues meritevole di Sleepless night blues e giù giù fino alla strumentale Lies.

Cantautore solitario il nostro, si concede in una prova che non è un vero e proprio disco, ma uno sfogo sul diario della vita, un raccontarsi concesso a pochi, un modo diverso di esprimere parole che altrimenti andrebbero dimenticate.

One eyed jack – Sea Plant Pollen (Gufo Records)

Post rock dalla provincia bresciana che si scontra e incontra tutto il rock del tardo ’90 caratterizzato da un post grunge essenziale e riscoperto, carico di significati e incanalato attraverso la polvere che si alza lasciando al passaggio solo uno strato tetro e spesso come un muro a far da spartiacque esistenziale a suoni granitici e compressi che appesantiscono la scena e tentano di cercare una nuova via per ridare speranza, ridare un senso al rock morto da decenni.

One eyed jack di ispirazione Lynchiana è il nome di questo trio che fa della potenza devastante una delle carte per giocarsi la sfida con un mondo musicale sempre più concorrenziale cercando sempre nuove aperture verso l’esterno  capaci di ridare nuova linfa e vigore, ottenebrando il passato e dando un senso alla formula power trio spesso uniformata.

Strutture prettamente pop che abbandonano però la concezione classica a cui siamo abituati per screpolarci al sole e raccontare di un disagio, di un male interiore che non lascia scampo e ossessivo tende ad aprirsi e logorare le strutture pre impostate che ci portiamo dentro.

Un disco ruvido e quasi oscuro, un disco fatto con passione e tagliente energia che cambia le carte in tavola e cerca di donare nuove speranze al genere, nuove attese forse e nuove domande sul futuro del rock oggi e di tutta la musica che ci attenderà da qui al futuro.

Opez – Dead Dance (Agogo Records)

Inoltrarsi in territori inesplorati, con stile e classe fondendo ritmiche e costanza d’intenti dove a prevalere sono i suoni puliti viscerali, riverberati e ondanti capaci di raccontare da soli il cammino, quel lungo incedere infinito del pistolero senza nome lungo il vecchio West tra l’emozione immaginata, tra il complesso ricreare sfondi di un giallo accecante dove il sole cola l’attenzione e si lascia andare nutrito da vibranti attese  e aspettative.

Gli Opez sono un duo costituito dai polistrumentisti Massimiliano Amadori e Francesco Tappi che con il loro Latin Desert & Funeral Party inglobano i campi lunghi del Leone d’annata con il più moderno Tarantino, un gioco di sguardi che si estrapola come fosse colonna sonora senza dimenticare il Badalamenti di Twin Peaks a segnare le desolazioni dell’anima, città abbandonate allo scorrere dei giorni intese come punto di non ritorno, un susseguirsi rapido di efficacia in note lasciate vibrare suadenti più che mai.

Un disco fatto di immagini quindi, 11 pezzi che aprono a territori lontani da Carlos Primero a Balera de mar, un album fatto di ombre oscure che ci attanagliano e sono pronte per l’ultimo saluto, ancora una volta, quelle ombre lunghe al calar della sera a ricordarci che siamo materia finita, polvere e calore, luce e oscurità.

Limone – Secondo Limone (Dischi Soviet Studio)

Testi stralunati con piglio deciso che si fanno strada nella giungla suburbana intascando un secondo disco più pungente, quasi aspro a raccontare del tempo in cui viviamo tra il nord est che non è più tale e un occhio attento all’Italia che sta cambiando.

Filippo Fantinato in arte Limone dopo il primo fortunato album Spazio tempo e Circostanze riprende la dimensione domestica dei live da salotto e incornicia una prova molto simile alla prima anche se qui il tutto è condito da un’amarezza di fondo, amarezza certo che si fa ironia, ma il nostro abbandona gli amori lontani per concentrarsi sulla società del consumo per evidenziarne difetti incontrollabili, ma verificabili.

Una manciata di minuti bastano per comprendere la caratura e la maturazione del nostro che dopo due anni si cimenta ancora con ossimori di grande impatto, tra Amanda Knox che trova un nuovo coinquilino, il gattino da salvare su Studio Aperto accompagnato da un’improbabile sonata di Einaudi, i mobili dell’Ikea le bombe di Bush e i cantautori moderni morti in Calabria addolcendo il sole.

Sfumature su sfumature, colore su colore questo album coccolato da un’elettronica che non manca mai apre nuove strade e la forte capacità espressiva del cantautore si trasforma per dare e creare un nuovo spazio ironico/intellettuale fatto da ognuno di Noi dove la raffinatezza è matrice principale del tutto e dove i pensieri, quelli veri, si possono leggere nascosti tra le righe lasciate in sospeso, quei testi strampalati dall’impronta naif che nascondono un mondo fatto questa volta da pennellate di colore in tre dimensioni capaci di farci vivere una realtà forse diversa, forse lontana, forse troppo amara, di certo vera e reale.

 

Bosco – Era (Autoproduzione)

Raccontare e raccontarsi, nudi allo specchio in un continuo nascondersi e celarsi attraverso i sogni che ci hanno costruiti, quei sogni che ci hanno fatto sperare di essere migliori, un continuo cercare il palazzo immaginario dalle enormi vetrate azzurre che in un attimo è pronto a crollare sopra di noi e sopra le nostre speranze.

I romani Bosco al loro esordio confezionano un disco fatto di sguardi alle finestre in una giornata di pioggia, una ragazza dai capelli lunghi che fissa il vuoto, là, oltra la brughiera, oltre il castello nel cielo, oltre l’immaginazione del tempo passato, un cercare luoghi migliori in cui stare grazie alla musica.

Una musica che fa ecco al pop sintetizzato dei primi Baustelle e notevole è l’avvicendarsi della voce maschile e femminile a rendere omogeneo quel tutto carico di significato profondo, quasi fosse una melodia proveniente da lontano dove le tastiere non predominano, ma fanno da sfondo autunnale al bel tempo che verrà.

Un album quindi fatto si sogni perduti e amori lasciati, dove il raccontare la vita di periferia è un modo raffinato e sincero per chiudere il proprio spirito dentro a un cuore solitario che si sta ancora cercando, remore del vuoto che gira attorno e dove il domandarsi è costrutto necessario per costruire e costruirsi.

Dieci canzoni che parlano di amori e di viaggi Me ne andrò a Berlino, perché così mi piace chiamarla, anche se il vero titolo è Il disertore, parte sulla scia dell’abbandono per concedersi poi aperture nel meraviglioso singolo La mia armata, via via Amòr e il Tempo per la dolce timidezza di Il susseguirsi degli eventi e poi ancora il viaggio, le vacanze estive con Malaga, passando per Se e finendo con l’ineluttabile Esedra.

Parlare di raffinatezza non è sempre facile ai giorni nostri, anche perché con i potenti mezzi che abbiamo per fare un buon disco ora più che mai contano le idee e l’idea di eleganza non strillata in questo album ricopre gran parte delle tracce e lascia quel senso di appartenenza simile a un ricordo lontano, a un’immagine di un tempo passato, dove le giornate duravano una vita.

Iacopo Fedi & The family Bones – Over the nation (Cabezon Records)

Cantautore post moderno che raccoglie la pesante eredità di Lou Reed e Bruce Springsteen per mettere in musica un blues contaminato dal rock anni ’70, tra un’oscurità che avanza e ci ingloba, raccontando di un mondo teso a comprendere culture, relazioni e vivere quotidiano.

Proprio di questo parla il nostro e la sua è una ricerca che parte dal basso, dalle radici di una musica dannata che si contorce e rende l’esperienza del cercare abile ragione intesa come passo necessario per scoprire e riscoprire qualcosa che è andato perduto, l’idea dell’ interrogarsi, quel bisogno intrinseco di scoprire e dare un senso maggiore all’esistenza trasformando un’abbozzata idea in un vero e proprio concept di un Don Chisciotte errante che cerca la verità, cerca di capire quella vita fatta di sogni infranti e futuri ancora da visionare.

Le canzoni allora prendono forma in un eco floydiano fatto di cori e ricordi, un disco solista che attendeva di uscire, attendeva l’attimo propizio per segnare la via con pezzi come la title track Over the Nation, fino a Sr Napoleon passando per l’incisiva, in grado di raccogliere la sfida per comprendere l’ignoto, This hard War.

Facciamo parte di una guerra quotidiana che ci vede unici protagonisti in grado di cambiare quel poco che abbiamo.

La nostra vita come una dura lotta per la sopravvivenza, in un mondo dove purtroppo i sentimenti sono sempre meno importanti e dove il nostro Iacopo cerca di ridare valore e senso ad un qualcosa di perduto per far riflettere, per farci sembrare migliori.

June and the well – Gudiya (Waterslide Records)

Un emo post rock emozionale che contrasta le onde estive per regalarci una prova dal sapore internazionale capace di entrare in profondità tra chitarre pulite accompagnate dai distorsori americani che hanno segnato gli anni ’90, con impatto emotivo riconoscibile e altrettanta malinconia per un tuffo nel passato senza fine, ma con forti rimpianti.

June and the well è il progetto di Luigi Selleri, batterista dei Suburban Noise, ad affilare la scena con un ritmo emozionale e dilatato che attorniato da amici, si concede e realizza questo Gudiya che uscirà come 131° creatura dell’epica etichetta giapponese Waterslide Records.

Gudiya è il nome di una bambina indiana, vittima di abusi e soprusi, un modo diverso per concepire un’idea, un modo diverso per essere parte e raccontare di un mondo in distruzione e pienamente assorbibile; noi vittime quotidiane del potere, dei poteri forti, di quel distratto camminare verso il nulla, sotto i riflettori di un cielo azzurro invisibile.

Ecco allora che le canzoni prendono vita e si fanno narrazione per essere parti centrali di una creatura che vuole farsi sentire, che ha bisogno di esporre i propri limiti, ma anche le proprie potenzialità, tanta luce in questo disco, tanta speranza in queste 6 tracce, a partire dalla bellezza velata di Francis, passando per S-low con Matilde Davoli e il finale alla memorabile The Bend.

Un disco che ci porta a fare capriole infinite lungo i prati del passato, tra discese scomposte e verità celate, tra omertà che deve riaffiorare e raggi di luce pronti ad illuminare la scena, ridando dignità a ciò che si perde e certezza per un futuro se non migliore almeno diverso.

Joan’s Diary – Tsuchigumo (Toten Schwan Records)

E’ il passaggio dalla luce alle tenebre è quel ricomporre incerto le contraddizioni della vita cadendo all’interno di un buco/vortice dal sapore metallico che si improvvisa in un secolo fatto di poche speranze e ingenuità da conquistare.

Loro sono liguri e dopo la prova ben confezionata dello scorso anno, Hello, bloody sister, incrementano la dose di follia e ci inoltrano in territori cupi dove il ragno gigante Tsuchigumo è pronto a richiedere il proprio pasto.

Metafora allegorica di una società malata, la nostra, che viene usata dai nostri come trampolino di lancio per incursioni noise, post punk e industrial, dall’attitudine lo-fi, strizzando l’occhio a gruppi come Preti Pedofili e i capostipiti CCCP in un grido di agonia lacerata solo dal tempo che sa ricucire le ferite in un continuo migrare, un soliloquio  dannato e mutevole che ci immerge completamente in un’atmosfera rarefatta e mai scontata, dove le continue citazioni rimandano ad un inferno dantesco che si affaccia proprio di fronte alla nostra porta di casa.

Diciotto tracce per altrettanti incubi onirici, una continua miscela che stupisce e rende reale tutto ciò che ci sta attorno, lo rende tangibile, La morte incaricata di aprire le danze, a chiusura quel ragno malefico e Yorimitsu eroe epico che destato dalla vita e invecchiato si accorge che tutto quello che ruota attorno a lui è soltanto una gabbia di ragnatele creata dalla più grande illusione esistente: la vita.

Intercity – Amur. (Orso Polare Dischi)

Amur è un disco che tutti vorrebbero fare, è un disco sul pensiero di ognuno di Noi, quell’abbraccio su cui si può contare, girando il mondo, vedendo cose, costruendo insieme.

Gli Intercity fanno ancora centro con questo nuovo album e dopo i cambi di formazione, acquisendo una maturità stilistica davvero invidiabile, che folgorante come un fuoco vivo d’inverno, ci trasporta verso terre lontane; il tema portante l’amore, quell’amore a cui non possiamo rinunciare, quell’amore che converge al centro di ogni cosa e non lascia scampo, il fiato al cielo e gli occhi al mare.

Dall’Himalaya all’infinità, dall’Australia mi penserai, fino agli Urali mi troverai canta Fabio in cerca di una forma di riscatto, in cerca di occasioni perse, ma mai abbandonate: un substrato di coscienze sottili, uno strato di ghiaccio polare che ci fa capire Come siamo lontani anche se vicini, a volte silenziosi, a volte premurosi, luoghi dove Qui convive il silenzio e non si parla più e ancora l’esigenza di incontrarsi in Teatro sociale, i ricordi dispersi lungo strade senza uscita di Indiani Apache e poi le atmosfere di Kyoto e gli addii di Kill Bill per chiudere il cerchio, un percorso senza fine che riparte con Le avanguardie: Da qui io partirò.

Malinconia di fondo che abbraccia Amor Fou e Baustelle, immaginarsi una terra desolata di frontiera dove un bambino corre con il suo aquilone in cerca di una meta senza trovarla, è un disco prettamente indie rock con venature pop, dodici pezzi che fanno il giro attorno al globo, innescano vortici letterari e di citazionismo e si concentrano su di un tema apparentemente banale, ma in questo caso affrontato con forte capacità visionaria e coscienza, il descrivere attraverso immagini istantanee una poetica di vita vissuta dove i ricordi e i momenti reali sono ancora vivi; immaginarsi il nuovo che avanza osservando le città in rovina.

Si chiude il cerchio, il sipario cala sulla scena e ancora quella nostalgia ci assale per un disco che sa di perfezione da qui all’infinità.

Erica Romeo – White Fever (Autoproduzione)

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Elettro rock dalle venature folk impreziosite da gemme artistiche che trasportano volontà e aspirazioni in un contorcersi di vibranti armonie cantate in inglese che si fanno ricordare e accennano all’oltreoceano come fosse pane quotidiano, un incalzare, un innalzarsi di quota  per raggiungere vertiginose altezze.

Un piccolo ep, un concept album che racconta e getta le basi per una solidità da mantenersi in futuro, un ritmo importante, ambientazioni elettroniche che portano a raccontare di un uomo bianco febbricitante nel distruggere tutto il mondo attorno, questo in White Fever per poi passare a Secret nel riscoprire la vita partendo dagli occhi di un bambino, un innocente visione del mondo fatto di ricordi su cui ancora sperare.

Graduate Shadings parla di un amore malato, un amore da cui non ci si può staccare e imperterriti si tenta giorno dopo giorno di creare la vita dove qualcosa di fondo manca ed è assente, via via che il disco si apre lascia spazio alla ballata Bonnie e Clyde e al singolo Little corner dove qui l’amore ritorna sottoforma di albero vitale che da frutti rigogliosi.

Nel finale Secret Reprise: un’infanzia che non vuole finire.

Un disco che è un puzzle emotivo, un album che raccoglie dei vissuti e li consegna all’ascoltatore come fossero petali di un fiore, quel fiore che ci appartiene e che tentiamo giorno dopo giorno di far sopravvivere.