Don Rodríguez – L’Indimenticane (Dischi Soviet Studio)

Band travestita da cantautore e cantautore travestito da band per la nuova fatica della Dischi Soviet di Cittadella, Padova, che continua nella promozione di gruppi che si esprimono in italiano per cuori da marciapiede che si stringono, per guardare avanti con gli occhi tesi al futuro.

Questa volta è il turno di Don Rodríguez, band proveniente dal Piemonte orientale che lega in modo indissolubile un cantautorato leggero e ispirato dai momenti della quotidianità, alle divagazioni pop alternative che si aprono al rock naif, quasi improvvisato e dimesso, in grado di regalare emozioni a non finire, concedendosi in arrangiamenti essenziali che strizzano l’occhio all’indiepop degli ultimi anni.

Definirli comunque non risulta impresa facile e nemmeno lo ritengo degno per qualsivoglia band o musicista che sia, il tutto suona ovattato e pronto ad esplodere, un implodere ed esplodere che non lascia scampo, attimi di meditazione per affilare le dita in refrain dal sapore convincente e incisivo, sonicità ribadita in tutto e per tutto da una potente base ritmica e precisa che permette alla chitarra di fare il proprio corso senza chiedersi troppo, ma concentrando l’obiettivo più sul connubio voce/testi che cerca di creare all’unisono 14 pezzi legati da un filo, composti di un puzzle da ricostruire per fondare memoria.

Ecco allora che le tracce compongono un quadro non troppo definito, ma che lascia all’ascoltatore la capacità di immedesimarsi nei racconti che il trio piemontese lascia intuire, l’inizio è affidato alla proverbiale Primo Carnera per proseguire poi con le allucinazioni cosmiche di Per combinazione e via via all’essenzialità di L’amore al tempo di Hitler, chiudendo il cerchio con le riuscite La stagione degli Alisei e Stazione 28.

Un disco che sa di dipinto astratto, che sa di pioggia d’autunno e fiori di primavera, un album per tutte le stagioni da ricordare nel tempo, lasciandoci il cuore.

Monolith – EvenMore (Autoproduzione)

Disco granitico e melodico che si staglia  all’orizzonte come un cielo da imparare, attingendo con forza e capacità ad un substrato culturale musicale che si innesta prepotentemente tra overdrive e compressori che intersecano la barriera del suono e si lasciano andare a qualsivoglia nuvola di polvere che sta per arrivare.

Quello dei Monolith è un rock tutto d’un pezzo che si stringe e strizza l’occhio ai compiacimenti eterei senza fronzoli del post grunge fine ’90 per raccogliere eredità del dopo e traendo beneficio da una formula che viene rivista e confezionata per l’occasione scavando gli anfratti della coscienza e cercando dentro di noi il modo per sopravvivere al domani.

La band modenese vede alla voce e alla chitarra Andrea Marzoli, Massimiliano Codeluppi all’altra chitarra, Enrico Busi al basso e Riccardo Cocetti alla batteria, una formula classica per far esplodere il necessario, per arrivare diretti al punto senza mezze misure.

Ecco allora che le canzoni scivolano via, grazie ad un approccio immediato che non guasta, nove pezzi condensati, in un viaggio fatto di sensazioni partendo con Overload e abbracciando nel finale Orange Moon.

Un disco dal sapore leggermente retrò, che raccoglie i fausti di una grande giovinezza, la nostra, che al solo pensiero ci riporta la mente, ancora là, quando il necessario non era altro che una speranza per un futuro diverso.