La Rockola 1/2/3/4 – Insert Coin (Cavernicola Records)

Una grande famiglia che abbraccia l’umanità che da una parte all’altra del mondo incrocia gli sguardi e gli strumenti per creare compilation da esportare dentro a noi stessi ricreando alchimie poderose capaci di farci danzare all’infinito in un vortice senza fine, ricco di anfratti e sfumature che le diverse culture sanno apportare all’espressione massima di libertà: la musica.

Il tutto parte da un’iniziativa di CHE*SUDAKA, band formata da argentini e colombiani residenti a Barcellona che riuniscono 74 band indipendenti da 18 paesi del mondo concependo 4 compilation rappresentate da un Juke box in copertina che ci invita a inserire il nostro soldo per dare una possibilità, per rendere concepibile non solo un’idea, ma un vero e proprio progetto di vita che ci innalza e ci rende più partecipi del progetto mondo, di quel progetto a cui siamo chiamati a fare parte con giusta presenza e importanza.

Non ci resta altro che seguire le onde e le immagini che la nostra mente proietta, che la nostra mente è in grado di ricreare, seguiamo il moto ondoso della fraternità, inseriamo anche noi il nostro gettone, dando una nuova possibilità a tutto ciò che è nuovo e degno di essere scoperto.

Il link per acquistare la compilation e avere maggiori info sul progetto

https://www.facebook.com/larockolacavernicola?fref=ts&__mref=message_bubble

Giusy Zaccagnini – Scusate se non mi sento all’altezza dell’idea che ho di me (Lapidarie Incisioni)

Nuvole che si stagliano in un azzurro cielo e fanno capolino a rincorrersi lungo vie infinite e piene di luce, timidezza conclamata, celata da sprazzi di introspezione sonora che rende merito a un acustico disincanto fatto di parole e sogni; sottili armonie piene di speranza.

Giusy corre, inciampa e capisce, comprende che quegli attimi di vita vissuta devono essere ricordati, devono essere impressi dentro ad un qualcosa che la rende unica e diversa dagli altri, l’idea di un album introspettivo, capace di raccontare e raccontarsi, istantanee di una vita vissuta, fotografie di un altro tempo e di un altro spazio capaci di donare un filo di gioia nel colore creato.

Lei è timida , ma dal grande cuore, mette sul tavolo tutto quello che possiede e lo fa con dolcezza e disincanto, si scusa già nel titolo e poi via via a parlare delle sue canzoni, come parti di un corpo da assemblare, che solo prese tutte assieme possono creare ancora quella magia che è il ricordo e l’esigenza di non nascondere nulla, ma di essere se stessi.

Un corpo nudo, e una vita da raccontare, canzoni poesie che narrano un’esigenza di scoprire e di scoprirsi, ricordando, per capacità espressiva, la genovese Neve su di lei, in un vortice autunnale di malinconie da ricordare, visibili agli occhi di chi solo vuol vedere, canzoni d’amore niente di più, amore per la vita e per il bello attorno a noi, attimi di luce prima dell’oscurità.

Noon – Noon (Autoproduzione)

Questo è un disco per fiori forti che stanno sbocciando, lasciando la neve al suolo per ricondurti a qualcosa di più vero, in stato emozionale, contorte visioni del futuro, li in mezzo ad un campo tra la terra e il sole, in mezzo a  quei fiori che stanno per crescere.

Sono i Noon e con questo primo ep ci fotografano all’interno di paesaggi nordici dove le incursioni sonore post rock cantate in italiano, si stagliano al suolo con reminiscenza affamate di Camilla che incontrano i milanesi Les Enfants per ricreare un mondo prima sommerso, quattro racconti di vita che si dipanano su ciò che ora non abbiamo più, su ciò che ancora è lontano, su quello che ancora speriamo di avere.

Titoli criptici citando i non lontani musicalmente Sigur Ros e trovandosi uno spazio vitale in cui vivere tra pop emozionale e rock in divenire cha fa di questo mini album un grande trampolino di lancio per soddisfazioni future.

Valdaro è citazionismo puro, è il Battisti che corre a fari spenti nella notte è annientamento delle aspirazioni, Scatola #1 racchiude un mondo quotidiano pieno di attimi e di paure, Cerbero è traghettare le anime all’inferno o forse ci siamo già? Chiude il disco Duluth con echi primordiali di poesia sussurrata che sia apre fragorosa nel finale.

Un disco dalle forti ambizioni che rende necessario un approfondimento per questa band, gruppo che  possiede tutte le carte in regola per entrare a pieno titolo nelle future migliori proposte della nostra penisola, coniugando la sofferenza con il divenire, l’introspezione con l’amore.

Lume – Lume (Blinde Proteus)

Alla ricerca della luce, alla ricerca di un abbaglio quando la strada sicura era smarrita, quando i nostri corpi rotolati a terra nel fango gridavano il loro nome per essere compresi, per essere reali ancora una volta, per essere toccati e  poi fuggevolmente rimossi dalla nostra anima; una candela in moto perpetuo che scalda e ci rende vivi.

I Lume racchiudono la potenza alla batteria di Franz Valente del Teatro degli Orrori, il basso e la chitarra di Anna Carazzai dei Love in Elevator e Andrea Abbrescia alle chitarre, per concepire un disco che parla di linee d’ombra da cui fuggire, costrutti emozionali che si perdono nella notte dei tempi e incasellano geometrie oblique per una prova che ha il sapore dell’immediato, del suonato a squarciagola per riempire attimi di buio assoluto.

Le tracce si dipanano tra uno sporco rock’n’roll incisivo più che mai in grado di accogliere e gettare al vento una voce timida, ma sempre presente, quella di Anna che ha il proprio punto di forza proprio nel creare asimmetriche distese incalzate da una batteria che picchia duro come un martello, una formula che abbraccia White Stripes e furia sonora alla The Greenhornes e all’avant rock, una formula bizzarra e quasi scanzonata, che riesce a ricomporsi grazie ad una parte istintuale caratterizzata da tanta esperienza e capacità con il proprio strumento.

Da Lucky number a The twee twee dance in un vortice di esposizione solare che esplode, non lascia scampo e ci consegna una prova dal carattere energico e inusuale, capacità racchiusa in nervosismi sonora carichi di buia lucentezza.

 

Sofia Brunetta – Former (Piccola Bottega Popolare)

Incursioni soul influenzate da un pop internazionale che scalda le valvole di una musica oltre confine. oltre le barriere a cui siamo abituati, regalando ritmo e decisione, grande caparbietà e precisione nel ricreare e soprattutto nel dare speranze ed emozioni, innovazione sonora quindi, in Italia, per un’originalità indipendente che con difficoltà si può replicare.

Sofia Brunetta parte per un viaggio, quei viaggi che forse ti cambiano la vita, ci mette passione in questo viaggio, ci mette tutta se stessa, un viaggio dove l’onirico si immola ad incontrare il reale, riscoprendo il gusto per il vintage e per il caldo abbraccio di suoni che a fatica possiamo ancora ascoltare.

Il Nord America, il Canada e la natura incontaminata, sento tanta natura in questo disco, un essere tutt’uno con le radici della nostra coscienza che si divincolano e trovano nell’espressione interna la parte più geniale del se e poi il ritorno in un paese diverso, ma sempre pronto ad accoglierla per riversare le fantasie di una donna in un disco che brilla di luce propria.

Ecco allora che come farfalla la nostra esce allo scoperto, e con precisione regala ad ognuno di noi una parte di se stessa, quella parte custodita gelosamente, che pian piano si lascia sciogliere per raccontare un bisogno di essere diversi tra Low e Black Little Star, piccoli paesaggi sonori in bilico tra una poetica d’autunno e uno stato di grazia difficilmente replicabile.

D’Iuorno – Diversamente Capace (Controrecords)

Alessandro D’Iuorno inscatola momenti di elettricità in suite acustiche dall’ineluttabile candore che raccontano e si raccontano in un passare eterno che concede spazi di intima voracità a concludere per un momento un percorso iniziato con il precedente album Ho capito abbastanza per infrangere modelli di vita e stanziarsi come cantautore di animi diversamente capaci di capire, diversamente capaci di intendere e soprattutto di essere intesi.

Prodotto da Giorgio Canali, che in questo disco suona anche le parti di chitarra e armoniche, il nostro allunga il pensiero ad un cosciente viaggio verso la disillusione, una voce che con rabbia e introspezione ci accompagna lungo un destino fatto non proprio di speranza, ma ci schiaffa davanti una realtà, fotografandola e rendendola reale più che mai, facendola uscire dalle vene, trasformandola in un qualcosa di cangiante e allo stesso tempo inamovibile, frutto di quel qualcosa che il progresso non è riuscito a spiegare.

Ecco allora che la solitudine umana è raccontata con classe cantautorale, fino al trionfo del nulla e fino alla riappacificazione con se stessi, un lottare silenzioso che sembra non aver timone, una barca nell’oceano che manda segnali d’aiuto.

Il viaggio parte con Senza strategie per finire con La mia città, parlando di sé e del mondo attorno, un sogno ad occhi aperti che porta la realtà dentro casa, senza finzione e incanto, un sogno vero e reale che si fa portavoce per tutti coloro che desiderano vivere in un qualcosa di più tangibile, onesto e reale, un’utopia leggendaria tra gli anfratti profondi della coscienza.

Silvia & The fishes on Friday – Under Water (Sign-pole Records)

Raccontare con velata introspezione un paesaggio dai colori acquarello, dalle tinte rimesse a nuovo in una stanza priva di finestre a narrare un viaggio, il viaggio di Silvia & The fishes on Friday verso mondi lontani.

Il disco racconta l’ignoto, un guardarsi dietro solo una volta e lasciarsi trasportare dal vento invernale, da quel gelido paesaggio azzurro che circonda le anime più solitarie, raccontandosi con una poetica di leggiadre parole a ricucire cuori infranti, a lasciar trasparire la minima emozione pur di raggiunger l’obiettivo, pur di dare un senso composito al mondo che gira attorno.

Un album, che suona giapponese, come l’etichetta che lo produce, un acustico quadro melodrammatico fatto di alberi e strade che non sono in evidenza, ma che si caratterizzano per essere al centro di un pensiero condiviso, che si prefiggono di essere un teatro per le rappresentazioni della vita che sarà, un’essenziale ricerca di nuvolosità variabile a racchiudere il pensiero della notte, tra sostanza e concretezza in ballate acustiche e minimali in stato di grazia.

5 canzoni che raccontano le malinconie, 5 pezzi d’amore e di neve, di sospirate attese e tiepidi addii tra la Canzone invernale e quel Non lasciarmi andare via, a dimostrare ancora una volta che siamo fatti prima di tutto di sentimenti a cui non sappiamo rinunciare, volendo raccontare l’amore disperso e ritrovato ancora una volta, come fioca luce nel bosco della nostra anima.

We are waves – Promises (MeatBeat)

Le promesse per un mondo migliore colmo di introspezione sonora che ci regala un disincanto suono proveniente da mondi lontani, incatenato e inglobato, una musica di altre dimensioni che prende direttamente spunto dalla migliore scena new wave anni ’80 per incasellarla nel futuro prossimo, i Joy Division che incontrano gli Editors, i The Cure incontrano gli Interpol attraverso un messaggio di sintetizzatori elettronici che ricercano il modo migliore per entrare nei nostri cuori e non uscire mai più.

Combattere gli inverni e abbattere il muro del suono, dare la possibilità alle malinconie di uscire allo scoperto, di darci ancora una volta quella speranza che accende la fiamma dell’amore, quel grigiore da abbattere perché noi siamo le promesse, siamo onde che si contorcono per creare spazio, per darci la possibilità di superare il confine ancora una volta, tra elettronica vintage che sa di reale, un tocco estetico in stato di grazia che si fa raccontare.

La crescita e le inquietudini, la scarsa conoscenza di sé che diventa arte, colpevole di non essere più quella di una volta e alla ricerca di un nuovo canale, dove convincere, dove poter sperare ancora.

1982 è canzone emblema fino a lasciarsi conquistare da Be your own Island e poi via via tra Monochrome e Silent Lullaby, fino alle finali Midnight ride e What happened today is useless.

Sono in quattro, si chiamano We are Waves e con questo hanno confezionato uno dei migliori dischi del 2015, scusatemi se è poco.

Q-Yes – Generazione Y (Phonarchia Dischi)

Non si possono definire, a loro non frega niente essere definiti, loro escono dalla moda di ogni giorno per rimarcare con vitale importanza il concetto di colore intriso dentro ad ognuno di noi, si fanno portavoce di spazzi che non sono stati ancora scoperti e grazie ad un suono ricercato e canzoni di gioie amori e dolori i nostri Q-Yes ex Zocaffè si lasciano andare tra flutti e mari inesplorati dove l’istintività è anche segno di maturazione.

Beat non troppo conclamato che viene spruzzato dal rock’n’roll d’annata con le chitarre che non sono fragorose, ma che fanno il loro dovere, il tutto condito qua e la da un’elettronica sbarazzina, ma sicuramente convincente in grado di trasformare il grigiore del quotidiano in un caldo abbraccio di gioia intrinseca.

I nostri raccontano di amori e tradimenti, si raccontano e guardano dal cannocchiale della vita le mille sfaccettature che quest’ultima riesce a donare, si immolano e registrano, capiscono fin dove possono spingersi e lo fanno con eleganza, ma mai con insistenza tra Margherita e il suo mondo di illusione virtuale, tra le #chiacchiere e i Rivoluzionari da bar che popolano i nostri paese e le nostre città, passando con ironia a Lividi e baci e finendo con i cibi manipolati in un omaggio a Celentano con L’unica chance.

Un disco questo che segna una nuova partenza, senza compromessi e con un’originalità disarmante, a segnare l’inizio del tempo, quel tempo che a pensarci bene è anche il nostro.

Gnac – Adesso (Autoproduzione)

Raccontano di vita e raccontano l’ironia delle situazioni imbarazzanti, raccontano un modo diverso di concepire l’esistenza, raccontano il grado di sopportazione di noi umili umani nei confronti di chi è diverso e di chi almeno cerca di essere diverso, i padovani Gnac concentrano passione in tutto quello che fanno e si immolano con cantato sbarazzino a essere da esempio per un rock dal sapore retrò contaminato da interventi prog di tastiera ricercata e mai banale, confezionando un album da non inglobare in un canone predefinito, ma cercando di trovare una propria via tra i cantautori e i gruppi anni zero che via via intasano i nostri social network.

Gli Gnac però donano al tutto una disinvoltura che non guasta, i testi sono diretti e senza fronzoli, si concentrano sulle situazioni di vita quotidiana e raccontano a noi ascoltatori un concentrato di vissuti che risulta essere al limite della comprensione, ma che purtroppo è indice e spiegazione della nostra inesorabile malattia che ci crede alternativi, ma purtroppo conformisti.

Un plauso quindi a questo gruppo, che attraverso gli intarsi ben educati dei quattro strumenti, riesce a narrare il divenire, un vivere inghiottiti come pesci, senza sapere dove il domani ci porterà e tantomeno senza sapere cosa sarà il futuro per Noi.

Un disco che si muove distinto, che ci ingloba in un pensiero ancora più grande e che sostanzialmente se ne frega di tutto e di tutti, K2 ne è l’esempio; 9 tracce per una lotta ai nostri attuali e malati principi tra Critica e consumismo a Pazienza è la vita, un album questo, che si accomoda su di una sedia ai bordi della strada, calmo e quieto a fotografare i momenti imbarazzanti del nostro vivere quotidiano.