Mimì Sterrantino & Gli Accusati – Un lupo sul divano (Veneretta Records)

L’Edoardo Bennato del 2015 impresso di uno stile che in parte può essere considerato personale capace di fondere diverse anime musicali tra cui il blues, il country, il folk e il rock in una miscela esplosiva che fa ballare e riflettere, ricomporre il perduto e segnare il cammino.

Il nuovo disco di Mimì Sterrantino è un disco on the road che riprende le sonorità tipiche di un’epoca per riportarle in modo esemplare nell’Italia sconfinata di tutti i giorni, una musica che si presta per il viaggio e come colonna sonora ci riporta all’interno di un film spericolato dove le vicende di vita umana, si confondono in modo aggraziato alla solare presenza costanza di un’acustica che non si fa abbandonare, ma che è compagna di notti insonni riscaldate dalla presenza di un lupo solitario che protegge e segna il territorio.

Un lupo sul divano è un disco che racconta il nostro essere fieri davanti agli altri, pronti a dare sempre il meglio, facendo prevalere un’immagine di facciata che inesorabilmente viene disciolta davanti alla realtà come una candela bruciata dal vento tangibile che ci accarezza giorno dopo giorno, attimo dopo attimo.

Ecco allora perché il nostro in questo disco sottolinea l’importanza di ritornare alle origini, alle cose semplici ed essenziali, alla natura, alla fantasia che ci fa sentire vivi, alla fantasia che ci permette di essere diversi e migliori.

Dieci pezzi che esaltano un mondo, che ne parlano come racconti di vita, partendo da Ringrazio l’altitudine e finendo con Caro Dj, ironico spunto di partenza per cambiare le regole della musica in Italia.

Ironico e dissacrante, quindi, ma carico anche di una realtà che delle volte può far male, Mimì rimescola le carte in tavola, nel gioco della vita, facendoci capire che il caso e il destino sono ben lontani dal nostro essere padroni di ciò che possiamo fare giorno dopo giorno con la nostra volontà.

Herbert Stencil – I Gelati alla moda (Autoproduzione)

Chitarra acustica strampalata in mano che si condensa e si fa liquefatta in elettriche d’abbandono punk rock che si distendono e lasciano entrare violentemente batterie e suoni in suspense che si alternano ai colori dell’improvvisazioni tanto questo disco è marchiato a fuoco da generi che prevalentemente spaziano dallo psycho al beat, dal rock d’oltre oceano al punk gridato a squarciagola che si consuma indifferente alle mode quasi fosse un’esigenza quella di contemplare ancora a fondo un attimo di orizzonte.

Herbert Stencil è un cantautore nato in Sardegna, dopo innumerevoli lavori più o meno rinfrancanti il nostro si concede alla vita da ingegnere, ma nello stesso tempo compone musica stralunata che non vuole rientrare in un determinato genere, ma che si esprime come esigenza essenziale di vita, senza risparmiare nulla e nessuno.

Affiancato nei live da una band e nel disco da una forte dose di sintetizzatori Herbert Stencil si concede senza problemi, abbandona il superfluo per far dell’introspezione nonsense un cavallo per entrare nella ricca città e attraverso un dissacrante uso dei termini, poter penetrare a fondo e non risparmiare nessuno e nessuna.

Meno tasse e più donne naif questo è il suo slogan, in onore di una spontaneità che deve essere ritrovata per poter fare del mondo un qualcosa di migliore; pensiamo a pezzi come Ci ho pensato domani o Quando andavo al conservatorio, per passare dalla title track fino a Il cervello è scaduto: richiami da Gaetano suonato dagli Exploited, Zen Circus e Tre Allegri in un mix di musica sudata fino all’ultima nota.

Un disco che merita attenzione perché risulta essere una prova in stato di grazia, capace di rischiarare il cielo dalle giornate grigie, tra il ritorno delle cose semplici ed essenziali e una maturità raggiunta e tangibile.

Alessandro Sagresti – Ogni giorno (Alka Record Label)

Cantautorato che si esprime docilmente quasi in maniera raffinata fin dagli inizi per aprirsi pian piano ad incontrare sovrapposizioni elettroniche e parole efficaci per narrare un concetto, una storia, che fa parte del nostro essere al mondo e racchiude quella capacità intrinseca di far si che l’amore per la musica si trasformi in un qualcosa di condivisibile e puntualmente preciso.

Alessandro Sagresti nasce a Milano e coltiva dentro si se il pensiero che la musica debba essere rinascita e nuovo modo per affrontare le avversità tra malcelati chiaro scuri esistenziali che si fanno veicolo per accese ripartenze ed uno sperato rinascere che racchiude il senso intero della vita.

Quattro canzoni per un ep ben congegnato, quattro pezzi da Energia Libera passando per l’autobiografia Io sono così, veicolando il tutto con la ritmata Ogni giorno e la chiusura di denuncia Spegni la televisione.

Impressioni e acquarelli in pittura che delineano le esistenze e che si promettono un nuovo inizio, una nuova era per tutti Noi fatta di cose semplici e narrazioni delicate, cariche di quel cantautorato che si da per raccontare.

Senhal – Bianco/Panoramica (Autoproduzione)

Un cantautorato d’altri tempi che si esprime quasi con grazia sopraffina come fosse una donna a piedi nudi sull’erba che danza fino allo sfinimento, tra leggiadre farfalle amichevoli e piccoli insetti che solleticano e salgono pian piano fino a comprimere il tutto in una poesia tascabile fatta di piccoli racconti post prog che per assonanza si rifanno facilmente alla musica targata ’70 italiana, il post figli dei fiori, in video in bianco e nero e purezza sostenuta non conclamata ma che strizza l’occhio in modo convincente fino all’altra parte dell’oceano.

Due canzoni completamente diverse tra loro, Bianco e Panoramica, ma che entrambe si domandano e si interrogano su temi esistenziali guidati da caparbietà e gioco di spirito, Bianco è il precoce invecchiare dell’anima rispetto al corpo, quando uno muore dentro e il mondo che gira attorno è solo sfocato contorno, Panoramica è il vedere da un punto di vista differente gli occhi degli altri, le città degli altri, le strade degli altri, che possono essere anche nostre solo se non perdiamo di vista il nostro vivere ed è ecco allora che il gioco riparte con Bianco e con l’esigenza fatta ricerca.

Un disco suonato e pieno di spessore, capace di andare fuori dagli schemi pur rimanendo in un’ottica di musicalità percepita che va oltre il vissuto, che va oltre la concentrazione per lasciarsi andare in un respiro profondo.

Luca Casali & The Roots Band – Time to smile (New Model Label)

Colori impressi nella mente che si stagliano in modo quasi sopraffino in un caleidoscopio caldo e intriso di quella capacità di raccontare storie attorno al fuoco, anime che per una sera si incontrano e si parlano, parlano di come potrebbe essere stata una vita diversa, narrano di leggende e di lunghe strade da seguire, memorie e solitudini, ampi spazi e raccolti di distese infinite che sono il nulla agli occhi dei più ma che racchiudono il segreto della vita.

La vita che ci racconta Luca Casali assieme alla sua band è una vita fatta dal viaggio, strutturazione composita di una nostra parte del sé che ci permette di sognare ad occhi aperti e far si che tutto ciò che noi vediamo simultaneamente racchiuda i nostri limiti, le nostre speranze e la nostra caparbietà nel ricreare ancora per un momento una parte di mondo dentro di Noi.

Ecco allora che gli strumenti acustici si sposano perfettamente tra capacità espressiva e quella chitarra Weissenborn tanto cara a suoni acidi e d’atmosfera, usata da artisti come Ben Harper, che impreziosisce il tutto trasformando il dobro in un qualcosa di più raffinato e melodiosamente convincente.

Il percorso che affronta il nostro Luca è fatto di fatica e sudore, un fuggire dalla realtà per immergersi nella natura selvaggia, dimenticando stili di vita consumistici e abbracciando di gran carriera un modo di vivere fatto nella  strada e per la strada, intensa ricerca di un altro nuovo io.

Nove pezzi che narrano di elementi naturali sposati in modo indissolubile con noi stessi, entrando e riscoprendo caratteri persi ed energia prima dimenticata, in un vortice emotivo che si concede ad una proposta di ampio respiro.

 

(re)offender – (re)offender (New Model Label)

Cadere lungo lo spazio imprevisto e riconsegnare al suolo polvere e tracce di Noi che si intersecano in modo ambizioso tra strutture chitarristiche, sonore, spiazzanti, capaci di una nuova energia e forma, un costrutto elegante che fa della materia oscura campo di fioritura per un seme che viene accolto e trasformato, elegantemente fecondato e lasciato cullare dall’aria del tempo.

I (re)offender, band di Frosinone, confezionano un disco di leggero shoegaze, intrappolato dalla rete del post rock e dal dark con impresse in modo del tutto inusuale le capacità post wave che convincono fin dal primo ascolto e si lasciano consegnare ai più come fossero piccoli quadri sonori a cui non chiedere troppo, ma appunto la capacità del tutto intrinseca sta nell’ andare a fondo di un concetto amorevolmente consumato e sofferto, mitigato dal cerebrale alzarsi di un leggero spiraglio di luce.

Ecco allora che le canzoni si compongono e si destrutturano compiendo un salto in avanti, un tuffo nell’ignoto della nostra immaginazione, cinque pezzi e nulla di più tra Down for a while finendo con Meeting of feelings, raccontando le incertezze, gli stati d’animo e i dissapori della crescita, unico mezzo per fuggire dal proprio destino ineluttabile.

Un disco seppur di breve durata, che completa un puzzle, un puzzle emotivo che vorremo avere scoperto ancora prima, a riempire con il proprio tassello una parte importante della musica italiana.

LEF – New Vague 15 (O’Disc/Audioglobe)

LEF_new_vague_15

La cinematografia italiana degli anni ’50 ispira il terzo disco della band Italo – Inglese Lef che ci riconduce attraverso i tempi dove la rivoluzione tricolore nell’arte del cinema era un sogno a cui ora ci affacciamo con non poche speranze di ritorno.

Prosegue la ricerca stilistica di una New Wave intrappolata negli anni ’80 impreziosita da sussulti chitarristici che si condensano ed esplodono a creare un’inusuale unione di cantato inglese e italiano contaminato, pieno di rimandi al cinema e a quel colore bianco e nero che caratterizza per intensità tutto il corso del disco.

Entrare nel buio per riscoprire la luce si potrebbe dire, entrare attraverso le lenti distorte in un concentrato di vita narrata e vissuta fino in fondo, fino al ritorno delle tenebre e al ritrovare se stessi in una notte che non sempre ci porta il coraggio per proseguire e per lasciarci incolumi del nostro destino.

La ricerca quindi che si fa colonna sonora per immagini, un’auto in corsa e i chiaro scuri presenti a regalare ancora un attimo di respiro prima del salto nel vuoto, prima dell’immedesimazione totale con un amore che si dona e che non da compromessi, ma si struttura in modo da non lasciar trasparire elementi di disarmonia.

Ecco allora che i suoni si contaminano in un post punk elettronico dove i sintetizzatori sono il marchio di fabbrica e dove la sezione ritmica lascia lo spazio a chitarre puntuali e presenti in grado di segnare egregiamente il cammino.

Un disco che suona di sperimentazione, di citazionismo iconoclasta, che interseca sonorità del passato trasferendole nel nostro futuro, tra passi pesanti su scale infinite impresse nella pellicola del tempo che non potrà scomparire.

 

Bifolchi – Diario di un vecchio Porco (Cornia Dischi)

Citano Bukowski e il raccontar quel male di vivere che sbatte addosso all’odierna inutilità del tutto che si concede come effimero sospiro di un sogno che non è di certo il nostro.

I Bifolchi, band toscana, al loro esordio confezionano una forte denuncia ad un mondo che si sta perdendo tra gli abissi e tra gli estremi, un atto di denuncia verso chi o cosa ci rende schiavi di una prigione immaginaria dove l’Italia è la protagonista del vizietto canonico e dove l’essere se stessi molte volte ci porta a fare i conti con l’essere anche pilotati come marionette senza fili.

Un disco dal sapore folk che non disdegna di certo la musica d’autore toccando apici di rock and roll, country e lisciate di jazz per accontentare i palati più esigenti e rinvigorendosi di trovate geniali e assolutamente perfette per lo stile e l’inaspettata capacità di consegnare a chi ascolta uno spaccato della nostra penisola che sa di amaro e di poca speranza.

Tra Conte e Jannacci, Gaber e Capossela i nostri improvvisano scintille dissacranti dal  sapore melodrammatico, un film da vedere di certo per entrare più profondamente dentro a ciò che è intorno a noi, ma che a volte non vediamo o meglio facciamo finta di non vedere.

Canzoni strutturate dalla Rivoluzione del divano dove a vincere è la tv a pagamento, passando per un vecchio porco, il protagonista del disco, insaziabile guardone di fugaci amori e poi via via con Il farmacista portatore di cure invisibili, La banda della gallina tra slot machine tarate e il finale assegnato a La bella del Paese canzone d’amore e di emigrazione.

Un disco per lo spirito, il nostro, un album che deve arricchirci e deve farci catturare l’attenzione su ciò che nella vita è magari così vicino a Noi, ma nello stesso tempo lo sentiamo lontano e invivibile; un pretesto quindi per sbatterci con forza, ma anche con ilarità, davanti agli occhi, una società che deve essere cambiata, partendo prima di tutto da noi stessi alla ricerca di una nuova etica.

Emidio Clementi – Notturno Americano (Santeria)

Sembra un audiolibro che avanza piano, racconta e si contorce, si lascia andare ad evocazioni sonore di elettronica non conclamata, ma che rende un degno sottofondo musicale ad una voce che conosciamo, che abbiamo amato nel tempo e ci ha accompagnato lungo le nostre solitudini.

Emidio Clementi partorisce un lavoro introspettivo che seppur non direttamente parla di se stesso, della sua vita, un momento di catarsi che diviene collettiva, in racconti emblematici di un’altra epoca.

In notturno americano i quadri di Hopper prendono vita e si elevano nel racconto, nelle storie di tutti giorni nella continua ricerca di un punto d’incontro da dove partire per riuscire a ricostruire il passato.

Il passato di Emanuel Carnevali narrato per l’occasione dalle chitarre e dai synth di Corrado Nuccini e dal violino e la tromba di Emanuele Reverberi  entrambi Giardini di Mirò che per l’occasione cambiano immagine addentrandosi con garbo nella polverosa America del primo ‘900.

Emanuel Carnevali quello scrittore, tra i più talentuosi e meno riconosciuti dell’epoca, che parte da Genova per inabissarsi negli anfratti di New York e Chicago del primo ventennio tra falso mito americano e il lento discendere le scale dell’abbandono, della miseria, dell’emigrazione e di quella solitudine di fondo che connota la vita di chi parte per non fare ritorno con la speranza che il mondo, almeno da qualche parte, sia diverso.

Un pre John Fante capace di intingere di verismo la penna dell’anima, narrando attraverso visioni offuscate il complesso ingranaggio di sentimenti e fortuna, morte e vita, lacerante spazio fatto di piccole cose nascoste, ingabbiate e bramose di uscire allo scoperto come un forte pugno allo stomaco.

Qui la voce narrativa è mezzo per un qualcosa di ancor più grande: la memoria, astuto dilemma del tempo, un passo tra le lancette dell’orologio, tra i corpi e il lieve sospirare fatto d’amore, tutto quello che viene dedicato e sottointeso: la  purezza che lascia spazio al tempo, a quella barca da rovesciare la barca da rovesciare della tua purezza entrando furtivo di notte nei tuoi sogni, entrando furtivo di giorno nella tua realtà.

Valentina Dorme – La estinzione naturale di tutte le cose (LavorareStanca)

Sei anni non son pochi per assaporare un disco, dopo questo tempo , che parla di piccoli fatti e vicende quotidiane narrate con lo spirito del poeta d’altri tempi che si contorce come essere attorno all’albero della vita.

Sei anni e il ritorno dei Valentina Dorme si comprende in soli pochi ed essenziali fraseggi, niente paroloni, niente mezze misure, un arrivare diritti al significato recondito, celato, amorevole e disincantato dove le rime non sono chiamate per narcisismo fine a se stesso, ma il tutto si scioglie per relegare una poetica piena di lacrime e sudore.

I Valentina Dorme si consumano raccontando la realtà , si consumano raccontando una parte di Noi stessi che non vogliamo far uscire e inevitabilmente si fanno portavoce ora più che mai di quel cantautorato impegnato che abbraccia il filo sottile del rock per annientarci ancora una volta con frasi dal sapore dolce amaro e una costante ricerca negli arrangiamenti che non sono altro che sali scendi emozionali incostanti, privi di schemi del tutto logici, ma capaci nel colpire di sorpresa, in modo repentino e quasi suadente, a segnare ancora una volta il cammino per compiere l’impresa.

Un disco di protesta che cela un’aria di mistero e di tenebra, quasi a parafrasare una fine del mondo inevitabile, una catastrofe nelle nostre mani, Noi unici padroni del nostro destino che ci annientiamo per sopravvivere relegando il tutto ad una fine mortale.

Canzoni come A colpi d’ascia o Ricordi, cagna? ne sono l’esempio, passando per la storia in Lucido Sentimenti IV e l’emblematica Il circo lascia la città concludendo il tutto con la canzone testamento Shanghai.

Un album personale e carico di quel bisogno di cambiare che si accosta prepotentemente alla fatica di essere giorno dopo giorno noi stessi, ancora una volta, con le nostre speranze e le nostre illusioni, il chiacchiericcio di contorno e il nulla che avanza.