Vincenzo Fasano – Fantastico (Eclectic Circus)

Entrata dirompente che si inerpica pian piano fino alle urla malinconiche che lacerano il cuore e colpiscono per originalità della voce e commistione con il cantautorato anni 0 targato Brunori, Nicolò Carnesi e Vasco Brondi tra un panorama italiano offuscato e ancora grandi stelle da illuminare nel cielo.

Andare al mare, sta arrivando la siccità, il diluvio universale al contrario, ci credono corpi senza ali tutto questo è il mondo, l’universo di Vincenzo che racconta la tragicità della vita vissuta, tra monolocali rinsecchiti e le speranze annientate da una televisione che sempre più sovrana domina le menti fumose del nuovo popolo italiano.

E allora bisogna lottare con impeto e gridando i propri pensieri al vento che trasporta e accarezza e solo attraverso il lento scorrere si instaura nell’animo di chi sa ascoltare di chi sa concepire un’idea diversa di universo lontana da tutto questo, lontana dai corpi feriti, dalle guerre del cuore, dalle solitudini e dalle introspezioni: una ricerca personale della felicità che va assaporata attimo dopo attimo.

La battaglia per conquistare il fantastico è appena cominciata e porta con se i ritagli delle ribellioni i ritagli del tempo perduto che deve essere ricomposto per creare meraviglia, quella meraviglia che si può ascoltare lungo i dieci brani che compongono questo concept sulla vita e sull’importanza di lottare per credere ancora a qualcosa, credere nel futuro per combattere gli errori, errori che si trasformano in orrori, quell’incedere della vita che ci analizza e non lascia scampo.

Ecco allora che il tutto vira a suoni più intimi e sensuali pensando a Barcellona e al finale Verso l’infinito e oltre dove un cantautore si interroga su ciò che verrà, su ciò che può accadere se non abbiamo il coraggio di alzare lo sguardo per lottare ancora una volta, senza mezze misure e con negli occhi una nuova speranza.

MIWOOK – IN SANA MENTE (DgRecords)

Elettronica a creare atmosfere post grunge che colpiscono grazie all’efficacia di cori in dissoluzione che rapiscono, trasportano e conquistano, relegando il tutto, inglobandolo in un incedere sonoro dalla forte personalità.

Rabbia gridata e voluta tra sintetizzatori che inebriano parti scandite da una batteria carica di sincope e precisa nell’abbattere il muro del suono, a ricreare geometrie di esistenze perdute, buttate al suolo e volutamente atte al pensiero supremo, al pensiero che indica la via prima di tutto e sopra ogni cosa.

Vengono da Brescia, questo è il loro primo Ep e i Miwook, nonostante la giovane età, hanno una forte dose di coraggio nell’assemblare e nel dare nuova forma al rock defunto, grazie a quattro pezzi, i centrali strumentali, capaci di infondere energia e nuova linfa vitale nel raccontarsi.

Disco carico di adrenalina, capace di conquistare al primo ascolto, che non lascia giudizi a metà, ma che promuove a pieni voti questa band che suona da internazionale, pur vivendo in casa nostra, una band da valorizzare e da accudire come fosse fiore in via di estinzione.

La sindrome di Kessler – La sindrome di Kessler (Goodfellas)

La sindrome di Kessler

Un disco ricercato, ambizioso e perfettamente in tema con le sonorità chiaroscurali che intrecciano cantato narrato a distinzioni che non vogliono fermarsi alla prima associazione, ma che si rendono necessarie per compiere il miracolo sonoro.

Artigiani del suono si possono definire i campani La sindrome di Kessler che grazie al loro disco si impadroniscono di una capacità letteraria fuori dal comune per imprimere con arguta decisione un suono mutevole e cangiante, caratteristica tipica di una band che non si accontenta, ma che vuole trovare sempre e comunque nuove forme di comunicazione da avvicendare ad un suono ben calibrato.

Il disco omonimo è un movimento costante e fluente, capace di incrociare il miglior grunge a suoni legati ai primi Afterhours, Marlene Kuntz e ai primi Scisma di Benvegnù, un album pieno e sorprendentemente ricco di quella rabbia giovanile che incita alla rivolta sempre e comunque e aiuta a combattere e a resistere, dall’alto dell’apatia mistica che sovrasta senza nulla dare, incide profondamente su chi crede troppo e su chi perde la coscienza e qualsiasi aspirazione.

I nostri entrano prepotentemente con Fanfarlo a definire un mondo si solitudine per poi via via concedersi ad amori non corrisposti e a parabole che si fanno desideri concreti per un mondo migliore; si accarezzano poi Sinuose alterazioni tra la chitarra che si fa sentire e graffiante concede spiragli fino alla fine, fino al nuovo giorno.

La sindrome di Kessler  rimescola le carte in tavola per reinventarsi ancora una volta, tra il già sentito certo, ma tendendo a nuove possibilità da raggiungere.

ENTOURAGE – Vivendo Colore (La dura madre)

Trio di Messina che stupisce per scelta di sonorità ammalianti e in un incedere vorticoso si fanno portavoce di costrutti emozionali che danno il senso al colore, illuminano l’oscurità di carichi sospesi che convincono ancora una volta, carichi di quel bagliore di gioventù sommergono e allineano, acusticando note e viaggi cosmici.

I Verdena del sud, i Verdena di Solo un grande sasso, acustici nell’introspettivo inizio affidato a Tappeto Volante e via via inglobati in sonorità che si destreggiano in modo egregio tra attimi di cavalcate rock intervallate da rinascite melodiche, malinconie oltremare  e pillole di saggezza da conglobare nel nostro modo di vivere.

Una scrittura matura risaltata in primo piano, canonizzando l’estetica e sforzandosi di essere al meglio portavoce di quegli attimi che non sono più i nostri, ma che si fanno confronto e raffronto per l’alta marea che sta avanzando, per la forza improvvisa e dirompente di un ciclone che prende e non lascia scampo.

Portatori di un rock alternativo mai banale i nostri: Luciano Panama, Francesco Piccione e Paola Longo, sorprendono per freschezza e attitudine, si concentrano sull’essenzialità dei fraseggi e ci donano un rock ricercato e gridato non sempre, alle prese con le inquietudini e il malessere di una società che non è nostra.

11 tracce per un viaggio spaziale, 11 tracce a riscoprire attimi di luce, il colore che prende il sopravvento abbandonando l’oscurità per l’ultima volta.

Occhi in Apnea – Connessioni sottili (Ribes Records)

Racchiudono il senso del ritrovarsi, come un moto perpetuo che si fa moto ondoso in divenire di gioia, raccontandosi con passione e con esperimenti sonori tralasciano la semplicità iniziale per compiere il salto e concludere un disco carico di racconti e modi di vivere alla stregua e lontano da qualsivoglia ricercatezza leziosa per concretizzare al meglio un’idea, un concetto.

Loro sono gli Occhi in Apnea , nati a Rimini nel 2003, che con il loro Connessioni Sottili hanno fatto della fusione di stili un cavallo di battaglia; si perché la commistione è evidente e frutto di una ricerca che si fa portavoce di un tempo passato tra Sonic Youth e Velvet Underground passando per la canzone d’autore italiana targata ’70 incrociando il prog delle Orme che si schianta inesorabile nel 2015 tra un noise-folk e una post wave di matrice americana che si distanzia dal già sentito per essere conglobata in una raffinata malinconia di fondo che porta l’ascoltatore a seguire parola per parola le piccole storie di tutti i giorni.

Una voce che ci accompagna, quella di Rachele a fare da punta ad un iceberg inimmaginabile e ricco di disincanto che si associa prepotentemente all’altra voce quella di Cristian, al polistrumentista Alessandro Paolini  e alle elettriche di Alessandro Rinaldini.

Canzoni che parlano di noi stessi, di ciò che dobbiamo fare: …spezza la catena, buttala in mare esordisce Questa notte fredda e poi via via ad alternare un cantato italiano soppesato a quello inglese in una formula eccentrica, ma bilanciata.

I pezzi si fanno vivo appoggio con The Missing Picture e Beloved e sperano in Un’altra vita e Forme di sollievo finendo con la disillusione di L’ombra non si vede.

Un disco personale, intimo e quasi caratteristico, per un tempo che non c’è più, per un tempo che deve raccogliersi attorno a Noi e creare forme e geometrie esistenziali nuove e concrete, una ricerca tra connessioni sottili e amore destinato a non finire.

The dark side of the Wolf – Amycanbe – Laboratorio I’M Abano Terme 25/04/15

Ero un cantautore, giovane e spensierato…così posso iniziare questo live report, si perché ricordo di una piattaforma che si chiamava Myspace, dove ognuno di Noi poteva caricare le canzoni e sperare che qualche buon’anima le ascoltasse, quello che facevo, alla ricerca di fonti d’ispirazione, collegamenti, possibilità di interagire con chi la musica la faceva già da prima di me e aveva la possibilità di insegnarmi, stupirmi, meravigliarmi.

C’era un gruppo, fra gli altri, che mi aveva colpito: un’immagine del profilo dai toni blu scuro, un palco e una band, dal soffitto scendevano degli enormi origami e questo bastava per creare anche solo per un momento la magia, la voglia di progettare un palco come il loro, il desiderio di scoprire di più.

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Passa il tempo e la band acquisisce una notevole importanza nel panorama indie italiano e non, tanto da poter vantare collaborazioni con produttori internazionali di grande fama e apparire in raccolte musicali di mezzo mondo: la band per eccellenza nostrana dal suono più internazionale, la band che sa mescolare l’elettronica dei Lali Puna alle dispersioni in solitutidine tra le vette del bimbo A dei Radiohead passando per l’atmosfera di Bon Iver e l’essenzialità emotiva di un post rock che tocca cavalcate islandesi tra i ghiacciai di Jonsi e della sua band.

Amycanbe ad Abano Terme, Laboratorio I’M, 25 Aprile 2015.

Un’oretta di strada che mi separa, io che vivo nell’alto vicentino, non posso farmi scappare un’occasione così importante anche perché se non si fa strada in Italia per ascoltare questi gruppi per chi mai si dovrebbe fare? Martina è emozionata quanto me e la serata si preannuncia alquanto positiva.

Arriviamo, il Laboratorio I’M, è un posto strafigo, arredato con oggetti e mobili eco sostenibili e di riciclo costruiti dai ragazzi che lo utilizzano anche come ambiente di co-working in un’ottica di condivisione dei saperi e rispetto per l’ambiente. Locale di grandi dimensioni per la zona e ben frequentato (a Vicenza non abbiamo nulla del genere) che ambisce ad essere un punto di riferimento alternativo per passare le serate del fine settimana.

Ore 23.00 o poco più, salgono sul palco gli Amycanbe, Francesca già Comaneci, Marco e i due Mattia, tra sintetizzattori e batteria acustica contaminata dall’elettronica a infondere un nuovo senso, un nuovo corso al tutto per la presentazione del nuovo album Wolf / Flow.

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Si perché la parte oscura del flusso si traduce nel lupo e viceversa, alla ricerca di un contatto costante con la natura, con la vita di tutti i giorni e con la delicatezza introspettiva che ammalia come luce.

Francesca timida come sempre, ma allo stesso tempo capace di raccontare e raccontarsi tra movenze robotiche e movimenti circolari, stoppati dall’incedere della batteria e carichi di ammaliante suggestione post rock in accenti e fraseggi che sono immagine onirica per i nostri occhi.

DSC_5966Le canzoni scorrono egregie e il suono creato ha la capacità di conquistare un pubblico attento e partecipe, si parte con I Pay, seconda traccia del nuovo disco e via via si avvicendano, come fiume in piena, 5, Grano le passate Tell Me, la sempre meravigliosa Your Own Thing per ritornare alla perla sonora Bring back the grace e inesorabilmente fare un salto indietro nel tempo con Please e White Slide il tutto convincendo e aggrazziando un muro sonoro che vede i quattro polistrumentisti destreggiarsi tra cambi non conclamati, ma estremamente convincenti. Where From è pura poesia, tra i ritmi di Febbraio e il tormentone Everywhere per concedersi in un falso finale con l’intensa e combattente Fighting.

I bis sono affidati a Queens, Buffalo presente in coda a Mountain Whales e l’attesa Rose is a rose a segnare l’infinita associazione delle cose alle emozioni in un flusso che non sembra finire.

Il lupo, il flusso, la parte oscura della luna, il ritorno e l’oscurità, la tenerezza dei sorrisi e la sincerità di chi la musica prima di tutto la ama, la vive e la sente colonna sonora quotidiana imprescindibile, fuori dai luoghi comuni, in una ricerca carica di significati, alle volte misteriosi, nascosti e celati, forse dal sogno, dalla nostra paura di svegliarci, dal desiderio di vivere ad occhi aperti tutto questo e se il nostro volere è divenuto eterno divenire è anche grazie agli Amycanbe.

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Oltrevenere – Oltrevenere (R)esisto

Luce e oscurità che attanaglia e segna il cammino, entrare in un tunnel, in un abisso fatto di passioni e di cause perse, di possibilità e di orrore, tra il sogno e l’incubo, l’onirico e il reale come uno schiaffo che ti riporta a considerare la vita ancora una volta, renderla tale, essenziale avamposto da cui scrutare la novità che ci permette di sopravvivere.

Miscuglio di rock alternativo tra Teatro degli orrori e Tre Allegri ragazzi morti in una commistione che intrappola l’ascoltatore nel concentrarsi in modo costante al divenire spaventoso che ci attende, un mondo parallelo raccontato, vissuto e decomposto da dove poter ripartire, un’immagine speculare di una realtà che non è più tale.

Oltrevenere quindi oltre i pianeti conosciuti, oltre lo spazio sconfinato e accecante per la propria oscurità, mondi diversi, lontani, impossibili solo da pensare, ma che rinvigoriscono l’idea che il tutto dentro di Noi sia finito, un vortice di infinitezza bellissima e concretezza tangibile.

Provenienti da Vicenza i nostri, dopo aver fatto da opening per band come The Zen Circus e Sick Tamburo, si contorcono nell’esaltazione del mistero e creano un album dai toni cupi e decadenti che colpisce fin dagli inizi e via via si inabissa nell’eclissi totale, cambiamento epocale di divergenza sonora che non lascia scampo.

Un disco ben congegnato e studiato che sa di pioggia autunnale e voglia di reagire perché l’emozione più potente è lo scopo di un istante.

Kamera Kubica – Kamera Kubica (R)esisto

Kamera Kubica copertina

Linguaggio diretto, semplice e senza fronzoli che si apre a incursioni indie rock per sottolineare l’importanza di testi che parlano di abbandono e di totale menefreghismo verso una società che non ci appartiene e priva di qualsivoglia aspetto che ci mantiene in vita.

Vengono dalla provincia di Vicenza e sono i Kamera Kubica, band che rincorre il sogno di apostrofare il genere in innovazione sonora, concentrandosi su melodie pop dal piglio rock distorto, dove appunto quest’ultime la fanno da padrone passando per echi di sospirato suono che avanza e colpisce.

Peccano un po’ di ovvietà questo è vero, ma nel complesso il suono che ne esce è un incrocio tra i primi Afterhours e le lisergiche dicotomie dei Marlene abbracciati per l’occasione da un’ubriacatura contorta in simil Muleta, dove il bicchiere mezzo pieno porta il gruppo a sali scendi emozionali.

Si parte con l’esistenziale Sono solo per finire con l’altrettanto esistenziale Io sono qui, passando per i viaggi Se Salperai e Budapest.

Suono distorto e contemporaneamente melodico, dieci pezzi che si concentrano sul ciò che abbiamo avuto dalla vita  e su ciò che ancora possiamo spendere, una direzione sonora ben precisa che, senza fronzoli, mette al tappeto per vivacità della proposta, con l’augurio che questo sia solo l’inizio.

AMYCANBE – Wolf (Open Productions)

Lo vedi da lontano e subito ti fa paura, lo intuisci appena tra le distese di neve che si confondono in parte con le nuvole del cielo. Ti avvicini lentamente e scopri che l’animale che ti sta guardando è impaurito come te, ma emana bellezza, quella bellezza a cui non sai rinunciare, avvicinandoti puoi vederlo negli occhi e capirlo profondamente, un lupo selvaggio che ha bisogno di essere compreso.

Questa è la sensazione che si ha al primo ascolto di Wolf nuovo disco degli AMYCANBE, un passare tra terre desolate in cerca di creature meravigliose tra sali scendi emozionali che incantano per eterea bellezza e si fanno portatori di un suono internazionale da classifica che non sfigurerebbe in qualsivoglia colonna sonora di film introspettivo.

Si perché quello che i quattro di Ravenna compiono è un viaggio dentro a Noi stessi, scavando profondità e cercando fiori rari su manti innevati, colpiti dal colore, colpiti dalla grandiosa solitudine che ti ammanta come un velo di calore in inverno.

Inutili le presentazioni perché i nostri godono di un grande rispetto all’estero, tra collaborazioni con musicisti e producers inglesi e americani come la presenza, anche in questo disco, di Mark Plati al missaggio, conosciuto per i suoi lavori con Bowie, Prince, The Cure…

Incrociatori sonori tra Bat For Lashes e l’elettronica di Air, passando per Bon Iver e James Blake, che partono per territori inesplorati e convincono a dismisura, pezzi di Comaneci in Wolves, arrangiata chitarristicamente da Glauco Salvo che con Francesca Amati condivide il parallelo progetto acustico, si stagliano al suolo immacolando capacità espressive fuori dal comune per una band italiana che ha il sapore dell’oltreoceano, quasi a confondersi a dismisura.

Un’opera quindi che si congela e si mantiene nel tempo, tra pezzi memorabili come Fighting e 5 is the number passando per Bring back the grace e Febbraio a stabilire una realtà priva di confini, essenziale e matura; si perché questo è un disco pieno di maturità, capace di affrontare la musica da un altro punto di vista e questi ragazzi meritano di essere consacrati parte di un’Italia musicale, parte di un tutto che li vede protagonisti, come quel lupo che tutti temono, ma che se visto da vicino da la forza di sperare.

Merzbow, Mats Gustafsson, Balazs Pandi, Thurston Moore – Cuts of guilt, Cuts Deeper (RarenoiseRecords)

Un pugno allo stomaco, un entrare dentro la conoscenza, dentro ad un abisso fatto di olio liquefatto che si scalda al minimo passare che si fa complice di un delitto immutabile, una tragedia in suono che è il perno per l’abbandono e la rinascita, ancestrale raccordo tra due mondi che si fanno portatori di una conoscenza che assurge l’individuo ad essere totalizzante, vero immediato e reale; suoni che escono da qualsivoglia parte di sperimentazione sonora, reale e incomprensibile, sfuggevole e disinvolta: reale materia per i nostri incubi migliori.

Quattro nomi e zero presentazioni: Merzbow, Gustafsson, Pandi e Thurston Moore, ancora assieme dopo il sorprendente Cuts a ricucire ancora le ferite degli animi, ancora assieme a cercare di dare un senso alla esplorazioni verticali rumorose dell’elettronica noise contaminata dal free jazz e dalle incursioni malate di Moore a dare il valore aggiunto ad un disco che non si lascia di certo intrappolare in un determinato genere, ma piuttosto ne ridefinisce altri.

Quattro tracce e due dischi, si si proprio vero, un viaggio nell’inferno cosmico dell’immaginazione, dove ai nostri giorni chi non osa, chi non riesce a riappropriarsi del volo è costretto a rimanere ancorato a radici che ti inchiodano al suolo senza via di fuga.

Il disco è l’esemplificazione totale di che cosa può diventare la musica oggi: opera d’arte contemporanea senza mezze misure.