Rocio Rico Romero – Roca Basica (Liquido Records)

ROCÍO_RICO_ROMERO_Roca_BásicaLasciati trasportare verso lidi lontani dove l’orizzonte si staglia fino a comprendere parti di te stesso perse lungo il cammino, lasciati inglobare dalla forza coinvolgente, mutevole e disincantata di perle coltivate, per raggiungere una bellezza sopraffina che va oltre l’immaginato e che fa apparire la terra di confine, solo ed esclusivamente materia che si sgretola e che non ha nessun valore, tanto le barriere non sono mai state inutili come oggi, più di ieri.

Nove pezzi che trascinano emozioni e colpiscono per raffinatezza ben cesellata, canzoni che hanno il colore del corallo, lasciato andare tra i flutti di un mare lontano e che si trasforma in un tripudio di impressioni colorate, colpite dalla volontà di accarezzare la pelle con una voce candida di deserti ricchi d’acqua.

La sua musica colpisce per rarefazione e capacità di creare, Rocio Rico Romero con questo esordio si conferma capace di imbastire costrutti sonori in grado di immergerti in un mondo fatto di sogni cangianti e da scoprire, in un vortice continuo di stupore e magnificenza.

Rilassarsi dunque è la parole d’ordine e scoprire le meraviglie del mondo, anche le più piccole, seduti, con lo stereo acceso, sul proprio divano, in attesa di altre, nuove avventure sonore, ammagliati dall’andalusa voce che non è mai stata così vicina.

Moustache Prawn – Erebus (Piccola Bottega Popolare/MarteLabel)

Questa è musica che viene dal mare.

Fuori da ogni etichetta di genere in un cantato beatlesiano targato 2.0, tra un susseguirsi di cambi di tempo, maestose variazioni e incontri sonori che ammiccano in modo evidente, ma anche personale, ai mostri sacri della musica rock targata ’70.

Beck sarebbe felice di questo lavoro e ancora di più lo siamo noi, perché questo album, è maestria calcolata e nessuna nota è lasciata al caso o al tempo che verrà, ma ingloba e ci rende partecipi di quel tutto, un tutto capace di scuotere e oltretutto convincere.

I Moustache Prawn convincono a dismisura grazie a questo Erebus che sembra la colonna sonora di un racconto fantasy fuori dal coro, non allineato, poco propenso all’orecchiabilità, ma che nella sua varia natura ci regala emozioni che non sono da pagare con quattro miseri soldi, ma ad ogni ascolto ci fanno comprendere in modo evidente l’originalità della proposta e la fatica di promuovere musica di così alto livello, strutturata e incorniciata a puntino.

Su tutti pezzi come Something is growing, la sbilenca Solar e la floydiana Eating plants suonano come una cena tra orpelli da disintegrare e buon gusto da dispensare ancora.

Loro sono pugliesi, di Fasano, sono però animali che provengono dal mare, sono usciti dall’acqua qualche anno fa e con il tempo hanno potuto condividere palchi di tutto rispetto con artisti del calibro di  Hugo Race, Zen Circus, Bud Spencer Blues Explosion…tuffati nell’inesorabilità dell’esistenza i nostri però si vogliono ancora cercare il giusto spazio tra la folla che li circonda, in attesa di ritornare nelle profondità marine, nel felice vivere dentro ad una conchiglia.

 

 

Clessidra – Carta malabarica (ManzaNera Label)

E tutto inizia con un uguale a se stesso.

Un incedere di note che si strofinano su di un tessuto naturale che conosce i confini dell’universo, astratto si, ma sempre incasellato e guarnito, follemente provocatorio e prontamente reale.

Un disco di suggestioni possiamo chiamarlo, un disco che qui è difficile ascoltare, soprattutto ai giorni nostri, dove la frenesia ti incanala ad ascoltare musica – rifiuto radiofonica, che tenta di esserti amica, ma che ti accoltella alle spalle solo dal numero di ascolti che tenta di propinarti.

I Clessidra sono prodotti dal collettivo toscano Manza Nera e per questa prova si affidano ad elucubrazioni sonore degne di un direttore di orchestra, in un post ambient atmosferico e ricco di colpi ad emozioni incandescenti.

Sviluppato su più livelli ogni pezzo  parte con un rumore di cicale in sottofondo che ricorda tanto la notte, un’istantanea quasi sicura del vivere nell’oscurità e una rappresentanza del mondo tanto cara ai poeti notturni.

L’incedere poi si fa più chiaro tra Gatto Ciliegia e Bachi da Pietra in un flusso di onde ininterrotte.

Notevole l’artwork tra i migliori mai visti in vita, originale, elegante, con una bellezza unica  nell’accostare i colori e forse di proprio questo parliamo ascoltando i Clessidra, di una bellezza che non è di questo mondo, ma che deve essere ricercata, ascoltata e vissuta.

Etruschi From Lakota – Non ci resta che ridere (Phonarchia Dischi)

Benigni e Troisi, nell’85: Non ci resta che piangere, Gennaio 2015 Etruschi From Lakota: Non ci resta che ridere, entrambi a scopo contenutistico ci raccontano fatti, pensieri e misfatti che riguardano la nostra penisola.

Un cantautorato semplice e coinvolgente che incanala energia positiva per il cambiamento; i nostri amano le loro radici e vogliono continuare a vedere il buono che c’è in ogni cosa e in ogni situazione.

Denuncia quindi si in parte, ma anche tanto e tanto colore che rischiara il cielo e lo copre di purezza e sincerità, movimenti leggeri e veloci, quasi disarmanti che ti trasportano in un vortice di poesia musicale che si affaccia direttamente al folk cantautorale italiano degli anni ’70, su tutti Rino Gaetano e quella presenza costante di ossimori guida che lasciano la mente a pensieri vaganti e convincenti.

Testi diretti, privi di mezze misure, in cui le liriche si impastano in modo esemplare con l’eccellente dialettica ironica e scanzonata a ricreare atmosfere da balera alternativa, in cui il sonno è l’ultima possibilità da poter considerare.

Disco fresco quindi e genuino, che racconta fatti di vita, pensieri e prese di posizione: pensiamo al singolone irriverente Cornflakes o la quasi floydiana Il contadino magro, passando per l’Appino song Erismo o la meditativa finale San Pietro.

Album carico di genuinità rurale quindi, che ti accompagna a raccontarti un amore per una terra che sta scomparendo e che in qualche modo si fa seme per una nuova vita, un germoglio fertile e sicuro per il tempo che verrà.

 

CarmenSita – Outta Kali Phobia (Autoproduzione)

Primo disco per il duo Carmen Cangiano e Claudio Fabbrini, un album dalle tinte colorate e vivaci, immergendosi completamente in una foresta alquanto e stranamente ospitale dove i colori sono i fattori predominanti e dove il susseguirsi di sali e scendi emozionali si mimetizzano in modo esemplare con i contenuti e costrutti che si creano durante l’ascolto.

Un disco, sobrio, vivace e vero, adornato da suoni acustici, tra cui quello dell’ harmonium indiano effettato e delle percussioni africane a contornare una voce già vincitrice di numerosi premi canori lungo l’intera penisola.

Questo nuovo disco Outta Kali Phobia è un album denso di vissuti che si fanno prendere con leggerezza, una brezza di vento su di una spiaggia deserta, bagnata dal mare calmo e solitario in cui a specchiarsi troviamo un sole di un giallo ridente a distruggere qualsiasi tipo di malinconia.

La nostra per assonanza musicale ricorda molto Stereochemistry e il cantato si fa materia essenziale per dare un senso di straniezza destabilizzante in un contorno inusuale e ben riuscito alla Honeybird and the Birdies.

Un gruppo fuori dal coro quindi, che attinge world music in divenire costruendo alternative al già ascoltato, facendo immergere l’ascoltatore in ambienti accoglienti e soffici come un cuscino di un letto sotto un cielo di stelle.

OrangeBetty – Tenthtown (Autoproduzione)

Album di pura musica sperimentale tra incursioni sonore acustiche e cavalcate prog, tra i distorti malinconici e le vie di fuga da raggiungere per tentare di diversificarsi dalla massa, troppo attenta alla canzoncina radiofonica e incapace di osare.

Questo disco ha un qualcosa di portentoso, una capacità di brillare di luce propria; anche se addentrarci nei meandri di questa musica risulta assai complicato in quanto il tutto è composto come fosse un labirinto di pensieri e di suoni da cui è difficile uscirne e dai cui l’insospettabile magnificenza delle canzoni si sposa bene al contesto in cui vengono poste.

12 brani apparentemente confusi e riposti con un ordine casuale che in verità sono pezzi di storie intersecate,  un meraviglioso puzzle d’autore che non ha fine ne confini.

Delicate caratterizzazioni ed energia in stato di calma, sono le carte vincenti di questa giovane band in continua ricerca delle proprie capacità, esemplificate appieno in questo album.

I Giardini di Chernobyl – Un infinito Inverno

Un infinito Inverno, primo singolo di Cella Zero, album che uscirà il 4 Marzo per Zeta Factory e composto interamente da I giardini di Chernobyl band alternative rock nata nel Febbraio 2014 e composta da Emanuele Caporaletti, Stefano Cascella e Simone Raggetti.

Un singolo che attinge le basi e i suoni nel post new metal imbracciando muri di chitarre fragorose da consegnare alla storia e intrise di quella veridicità tipica di una band che ha tutte le carte in regola per compiere il miracolo sonoro, tra melodie in discesa da ricomporre e strutturare.

In attesa dell’uscita del disco ci addentriamo nel video ufficiale.

https://www.youtube.com/watch?v=niTPZ7PCQv4

 

Il vuoto elettrico – Virale (Banksville Records/DGRecords)

Trattenete il fiato, non respirate, fate finta che qualcosa sia rimasto di Voi laggiù nel baratro tra il vuoto più totale, dove l’assenza di punti fermi e singolari ci porta in un abisso di disperazione, grida e schiaffi da una realtà che fa male, ingloba e sputa ogni nostra colpa, ogni nostro errore fino a condensarci in goccia di niente.

Il vuoto elettrico crea sostanze multiformi di rock incrociato all’hardcore e allo stoner di quel rock borderline innestato ad una scena straripante di parole e significati che si incastonano miracolosamente nella mente di chi ascolta senza mai lasciarli andare via.

L’esempio si trova già in Il ruolo del perdono, quando la voce si staglia incontrollabile gridando Perché parlare equivale a non parlare.

In queste parole è rinchiusa tutta la poetica ermetica e fatta di ossimori che racconta il nostro Paese e ciò che ormai non c’è più della nostra Italia, sfiorando i Marlene di Catartica, Massimo Volume, ElettroFandango e Teatro degli Orrori su tutti.

La poesia gridata del Il Vuoto elettrico si concede, osa e non demorde: E’ solo quello che non vedi che ti fa paura? canta una voce lacerante in Le lacrime di Dio oppure ancora Sei sdraiato per terra, immobile, non riesci a muovere un muscolo e il letto è ad un passo da te in Asso di spade; sono solo piccoli esempi di un qualcosa di più ampio e generoso, di naturale bellezza e inevitabile  abbandono.

Un gruppo da tenere sott’occhio, perché in pochi come loro sanno ancora comunicare uno stato di disorientamento totale così accentuato e volutamente reale da dove partire per essere protagonisti della storia in cui viviamo, la nostra storia e non semplici burattini apatici disillusi.

Four Tramps – Tramps e Thieves (New Model Label)

Il blues del diavolo, il blues maledetto che circonda di fiamme gli strumenti e li fa suonare al ritmo di un traghettatore lungo i sentieri ripidi della vita, tra forme sonore che si inabissano fino a toccare il cuore più solitario.

I Four Tramps incanalano la loro voracità di musica, nell’essenza di un rock dalle tinte molto blueseggianti dove i suoni vintage ricercati si amalgamano in modo coerente ad una forma canzone che parla nei testi di abbandoni lungo le strade del mondo e della voglia di riscatto contenuta in ogni pagina della nostra vita.

Il progetto nasce nel 2011 attingendo ciò che di meglio hanno da Eagles a Muddy Waters, toccando i Doors, ma anche il più sfrontato Jack White di Ball and Biscuit in Elephant dei compianti White Stripes.

Un disco quindi che suona retrò fin dagli inizi, nulla di inventato certo e nulla di nuovo, ma sicuramente un disco di inediti fatto con il cuore di chi fa della malinconia sognante del blues il proprio appiglio per la vita, tra alti e bassi, situazioni di sconforto e vittorie inaspettate, in un vortice continuo.

Un giorno di ordinaria follia – Rocknado (Autoproduzione)

Infilati dentro a tutta velocità nel vicolo più malfamato che conosci, indossa le cuffiette del tuo lettore mp3  con Rocknado a volume indefinito e preparati ad entrare in un mondo.

Sembra di viaggiare lontano, dentro all’America più profonda, quell’America fatta di suoni indefiniti e compressi, dove il malessere si confonde con la musica che viene direttamente dalle voci di chi la fa ogni giorno.

I nostri invece sono di Padova e con la città del santo hanno poco a che fare, in quanto nella loro musica si respira aria di internazionalità: stoner punk con punte di grunge sopraffino cantato rigorosamente in italiano, danno alle sette tracce un sapore quasi onirico dove alla voce troviamo un Mario Biondi altamente incavolato che si esprime attraverso le linee sonore di Fu Manchu e Colour Haze.

Sette pezzi quindi che non lasciano via di scampo tra i sapori e i colori di un campo da   baseball, dove le mazze però sono utilizzate per distruggere i vetri delle auto parcheggiate, in soli 22 minuti di aria compressa, pronta, con un click, a dimostrare la sua forza unica e dirompente.