Postit – Aroma(n)tic People (Factum Est rec.)

L’etichetta Factum Est rec. , pezzo di un unico corpo Jestrai, presenta il quarto lavoro a media distanza di una band proveniente dal Molise attiva dal 2007 i Postit.

Rock strumentale, post rock, chiamatelo come volete sta di fatto che i nostri sono incanalatori sani di una certa energia nascosta che si fa esplosione quando meno te lo aspetti, quando le tue corde avranno smesso di parlare, lasciando spazio alle vibrazioni sonore che ti sovrastano in un lungo incedere discostante.

La band è composta da Massimiliano Ferrante, Luigi Mosca, Daniele Marinelli e Domenico Ciaramella, propongono un suono che deve ricercarsi in primis nel fondamento prog rock di matrice internazionale targato ’70  sfiorando mostri sacri contemporanei e non, tra questi Sigur Ros, Mogway, passando per Zappa e King Crimson.

In Aroma(n)tic People la musica è una commistione di generi che si intersecano tra di loro creando direttrici da seguire e da comprendere a più livelli, tra interventi di jazz d’avanguardia e post rock sviscerale.

Come dimenticare poi che a regalare il valore aggiunto al tutto c’è la chitarra slide di Roberto Angelini e la voce di Yani Lombardi nella traccia di chiusura Midnight in San Nicola.

Un disco da ascoltare più volte, un contatto ultraterreno con qualcosa di indefinito, quasi spaziale per certi versi; condensando la storia della musica, intrappolandola e facendola uscire come energia che ci fa sentire vivi.

 

Kaiser Chiefs – Padova – Geox Live Club 18/10/14

Andare ad ascoltare i Kaiser Chiefs è come fare un pieno di energia a pochi km da casa, un rifornimento che porta con se le giuste aspettative e che non delude, forse, nemmeno questa volta.

Per la quarta data del mini tour italiano, la band di Leeds, sovrasta, nel vero senso della parola, il piccolo palco del Geox Live Club o Geoxino di Padova, a sorpresa di molti che pensavano di vedere i nostri, come del resto il sottoscritto, salire sullo stage principale.

Ricomposte le membrane cellulari dopo questa piccola delusione, si entra nel club alle ore 21.00 e puntualissimi partono a suonare i Ramona Flowers, band dal buon suono complessivo, ma che non colpiscono appieno vuoi per il poco potenziale sfruttato vuoi per il cantante non del tutto convincente nelle sue pose plastiche dal sapore fittizio.

La loro musica è un misto tra U2, soprattutto nel cantato e sonorità più alternative legate al mood brit – rock d’oltremanica in una commistione che regala, solo a tratti, forti emozioni.

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Ore 22.00 e qualche minuto sale sul palco Ricky Wilson accompagnato dalla ormai prode ciurma, pronta a far scatenare i circa 500 corsi ad applaudirli.

ima2Il frontman della band è un vero e proprio animale da palcoscenico, non smette di muoversi e come un fiume in piena si distrugge e si ricompone in pochi attimi, quasi fosse il concerto della vita, quasi fosse l’ultimo concerto a cui può partecipare.

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Gli altri elementi della band si muovono appena, defilati, impostati, quasi fermi, c’è intesa e si vede, ma i riflettori sono puntati solo su un’unica figura che si dimena continuamente tra pubblico e palcoscenico.

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Dopo i primi quattro pezzi è tempo di togliersi la camicia per Ricky e mostrare quel sudore che deve essere segno distintivo per qualsiasi rock-star che intrattiene e coinvolge, quasi fosse un bisogno necessario, innato, quello di far parte del pubblico, di farlo partecipe dello spettacolo, in un unico grande esempio di savoir-faire che solo pochi grandi gruppi di genere riescono ad ottenere.

Le canzoni poi parlano da sole, Education, education, education & War, a mio avviso sottovalutato, è portatore di un suono completo, energico e potente e dal vivo i pezzi si fanno umani, quasi terreni, bellissime le versioni di Modern Way o One more last song, praticamente un inno da stadio, come del resto il singolone Coming Home o la circense Misery Company tra i pezzi finali.

Degna di nota My life, rallentata rispetto alla versione originale e costruttrice di un appeal sincero e percepito anche tra il pubblico.

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 In mezzo a molti pezzi dell’ultimo album si snocciolano in modo naturale canzoni cardine della discografia del quintetto, un’energica Ruby, un’impertinente Everyday I love you less and less e come non notare una The Angry Mob direttamente cantata dal bancone del bar?

Tra tutto questo si trova il tempo anche per festeggiare il compleanno di Simon Rix il bassista e cofondatore della band, tra domande del pubblico e tanto di torta con candelina consegnata dal tastierista Peanut.

ima7Una band che si fa notare, ma con garbo, coinvolge senza strafare e che ha la fortuna di avere un leader carismatico e pronto a tutto per conquistare chi lo ascolta.

Un concerto potente e reale: questo mi sono portato a casa!

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Genuini e non leziosi, i Kaiser Chiefs dopo poco più di un’ora e un quarto di live non vogliono insegnare agli altri come si fa della buona musica, lo fanno e basta e questo vi sembra poco?

Voto: 8+

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scaletta

Ila Rosso – Secondo me i buoni (INRI)

Un tuffo in avanti ad occhi chiusi, le speranze lasciamole al domani, ora è il tempo di vivere, di costruire, di tentare di capire i rapporti, di essere quotidiani nel quotidiano e reali nella realtà.

A Ilario Rosso piace giocare con le parole, ma la sua derivazione non è semplice questione di stile, ma è anche  e soprattutto capacità intuitiva di comprendere situazioni per poi raccontarle in modo del tutto personale; un cantautore consegnato ai giorni che cambiano, un cantautore di sogni da raggiungere e mete da conquistare.

La scrittura originale porta a compiere un’impresa soggettiva nel raccontare eventi della città in cui abita ne è l’esempio la sotterranea Canzone dei Murazzi passando per Casi popolari, denuncia sottile dell’era asociale.

Si passa poi velocemente a Filastrocca dei mesi che porta in primo piano il pensiero del ’68 e ricordando che tutto ciò che successivamente si è creato è nulla; contestazione si respira in La storia è sempre quella che porta al collegamento quasi d’obbligo tra Galeotto e libertà e I morti.

Notevole poi l’accoppiata parole/musica in Tango dei puri che lascia posto nel finale a Rap_porto canzone sulla fragilità dei deboli, capaci si di sopravvivere, ma anche capaci di essere travolti.

Questo è un disco sociale, un disco che parla della società, in maniere emblematica, quasi divertente, in un modo che contagia e fa riflettere, esito di una ricerca voluta e conquistata.

Ila Rosso è un cantautore spassionato che convince e stupisce, stupisce grazie alle piccole prodezze che riesce a mettere in piedi, in un continuo vivere che è matrice essenziale di ogni sua canzone.

Marian Trapassi – Bellavita (Adesivadiscografica)

Marian Trapassi, già vincitrice del Premio Ciampi, dopo un lungo silenzio, ci presenta il suo quarto album in studio, prodotto da Paolo Iafelice, Bellavita.

E’ un album silenzioso, leggero e allo stesso tempo un disco che suona sobrio ed elegante accompagnato da sprazzi jazz, ma che ricava la propria matrice esistenziale attingendo fonte d’ispirazione nel cantautorato di Dylan e di Cohen, cercando appigli nei confronti di  un’italianità scomparsa e priva di cantautori da leggenda come il primo De Gregori o il compianto De Andrè.

Il tutto suona morbido e sospeso, quasi ad incrociare l’estetica con il buon gusto, il bel canto e la leggerezza dell’essere che si innalza oltre ogni barriera.

E in fondo in questo disco si parla anche di barriere da sovrastare ed ecco che entra in gioco il tema del viaggio, tanto caro all’autrice, che percorre, attraverso i suoi occhi, una serie di immagini da cartolina, pronte ad essere confezionate nella mente di chi ascolta.

Bellavita racchiude il pensiero dell’intero disco mentre L’arancia invece fa da trait d’union tra Siviglia e la Sicilia, rispettivamente il luogo di ispirazione e il luogo dei ricordi, da dove tutto parte e dove tutto ritorna, poi le canzoni si fanno portatrici di una vena più ritmata con Giovanni, passando per la malinconica My Love e proseguendo in un sol fiato sino ad arrivare alle funamboliche incursioni di Finimondo per concludere con il sospirato ritorno A casa.

Una cantautrice matura e moderna, capace di sorprendere con le parole e portatrice di quella capacità, non comune, di racchiudere un’idea, quella del viaggio, non sempre facile da sviluppare; un savoir faire emozionale carico di esigenza di espirmersi, di fuga verso l’ignoto e ritorni inaspettati.

Antonio Firmani & The 4th Rows – We say goodbye, we always stay (Slow Down Records)

Sofficità espressa nel cotone, sognante trasparenza che ti fa tornare bambino, una miriade di suoni acustici che spaziano dall’utilizzo di pianoforte, xilofono, trombe e altre amenità che riscopri quando forse è passato il tempo di giocare, quando il tempo per i sogni ha virato il suo colore.

I nostri però, ai sogni, ci credono eccome e questo disco ne è la rappresentazione.

Un delicato esordio per Antonio Firmani e la sua band, un esordio che va oltre l’eleganza e consegna 10 tracce di melodie folkeggianti ricordando in primis Kings of Convenience e Iron and Wine.

Soventemente vengono accostati a band come Mùm e Sigur Ros, io invece ci vedo poco di quest’ultimi, se non l’attitudine easy nel trasformare i loro pezzi più post-rock in piccole perle acustiche da consegnare alla storia.

Provenienti da Napoli e nati nell’Autunno del 2013 gli Antonio Firmani & The 4th Rows, confezionano prima di tutto un’esperienza sonora che va ben oltre la forma canzone e invitano in modo non conclamato ad ascoltare per intero il loro disco, quasi fosse un viaggio alla riscoperta di noi stessi, delle nostre abitudini, del mondo fanciullesco che abbiamo lasciato per catapultarci in una realtà che non sempre è adatta a noi.

Il ritorno quindi, ma anche il futuro che senza il passato, ce lo spiegano proprio loro, non ha senso di esistere.

Ecco allora che le canzoni si fanno concretezza in No fly zone, nella efficace The 4th row o nella bellissima ed emozionante The givin’tree.

Un disco pieno di solitudine e delicatezza, abbandoni e ritorni, una complessa trama di situazioni da vedere con gli occhi di un bambino.

 

Orfeo – Sangue (Autoproduzione)

Delicatezza mai osannata, sospirata, decantata, da un filo sottile di voce, quasi cadente, con piglio malinconico e condito da piccole sovrastrutture musicali, che parlano del tempo, dell’amore, di noi.

Attimi rinchiusi da stanze silenziose, poca confusione, scene al rallentatore impresse in una vecchia fotocamera anni ’70 che porta dentro di sé i dolori e le gioie di un tempo vissuto e passato.

Tutto questo è Orfeo, cantautore milanese, che dona una piccola, dolce, perla da ascoltare più volte e che racchiude in un certo senso tutto il cantautorato più silenzioso e allo stesso tempo più audace che siamo abituati ad ascoltare.

Audace perché in grado di stupire anche e solo con una semplice chitarra e pochi arrangiamenti scarni, quello che in un certo senso riesce a fare Fabio De Min, con il suo pianoforte, nei Non voglio che Clara.

Affinità quindi, ma anche divergenze, un’implosione mentale di acrobazie riuscite, un modo d’essere che va ben oltre la semplice presenza, ma che si spinge a raccogliere rarità negli abissi più profondi della musica.

5 tracce, nulla di più, in cui Federico Reale si prende il sentimento e lo concede, lo rilascia per poi riconquistarti in un unico piano infinito.

Ascoltare Orfeo è come regalare alla persona che ami dei fiori che non appassiranno mai.

 

Cronaca e preghiera – Cronaca e preghiera (Autoproduzione)

Atmosfere post punk per questo esordio al fulmicotone che interseca sintetizzatori e suoni per cosi dire carichi di malattia ad un cantato Ferrettiano cupo e in fase di raccontare fiabe reali, che come un pugno allo stomaco si concentrano sulla psiche e riversano, odio, amore, giorni passati e militanza nei confronti di ciò che non c’è più.

Inutili i riferimenti, perché si sentono eccome CCCP e compagnia, i quattro divisi tra Milano e Firenze stupiscono per freschezza e capacità di reinventare un genere che sembrava morto e sepolto, ma che in questo disco Cronaca e Preghiera rinvigorisce, prendendo la forma di un qualcosa di concreto, mescolando stili e soprattutto testi, che parlano di blues maledetti, pornografia, vizi e quotidianità, che riguardano pensieri e costanti, giorni e mesi, in una continuo cerchio di disillusione.

I nostri adottano un piglio creativo e con sarcasmo affrontano ciò che più ci ferisce e che si trova sedimentato nel nostro lato oscuro e poco conosciuto .

Un disco quindi fatto di matrice cruda e veritiera, canzoni che squarciano e rendono accessibile l’inaccessibile, pensare alla solitudine di “Condominio”, la decadenza del rapporto in “Ucciderti a rate” o “Costa meno andare a troie” tra i tanti episodi dell’album che trasformano la realtà e la fanno vedere per quel che è e per quel che vale.

11 pezzi che si trasmutano in realtà, canzoni non per tutti, ma per i pochi eletti che fanno della vita motivo di riflessione e non di semplice consumo.

Fast Animals and Slow Kids – Alaska (Woodworm)

Opera sonora variegata che si caratterizza da una maturità compressa e pronta a scoppiare ad ogni secondo.

Il terzo album dei FAASK è un fiume in piena di emozioni sonore, dal caratteristico sapore glaciale, un misto di strade da percorrere e punti di svolta da cui ripartire, angoli ciechi in una strada ricoperta da grattacieli in cui la via di fuga non è proprio a portata di mano, ma si nasconde nel posto più vicino alla nostra anima.

Il cuore, quindi, in questo disco più di tutti gli altri si sente il cuore energizzante che strappa e lacera, che si contorce in grida di dolore e squarcia orpelli aerei in voli silenziosi, dall’azzurro cielo all’azzurro mare, un po’ come quando si torna bambini guardando l’immensità del mondo.

Un album immenso quindi, circolare, essenziale, mai banale, che stupisce per cariche sonore e sprazzi di inquietudine quotidiana pronta a ritagliarsi un nuovo terreno per ripartire.

Sono dieci pezzi, gridati a squarciagola, per non sentire più tutto l’universo intorno, canzoni che non prevalgono, ma che tutte fanno parte di un percorso ben preciso, che i nostri sanno di poter realizzare: titoli azzeccati e rumori che si impadroniscono di noi in un continuo e lungo atto infinito.

Un album che a priori, regala attimi di luce nel buio e ti fa, anche solo per un po’, essere migliore.

The Ophelia’s Nunnery – Non basta vivere (Autoproduzione)

Un pop con venature rock, fresco, cantato in italiano, fatto bene, gran bene direi, arrangiamenti curati: giovani ventenni di diversa matrice ed estrazione musicale, con speranze davanti e un futuro dai forti connotati e sicure promesse da mantenere.

Il funk abbraccia il pop e i testi, nonostante l’età, si fanno valere per maturità stilistica e genuinità, mai scontati o banali, ma alla ricerca di quel piglio alternativo che porta l’ascoltatore a riflettere senza relegare la musica a sola operetta da stuzzichini.

5 brani, di leggiadra decadenza, intrisi di pop che non scade, ma si riqualifica e rigenera attimi di pura poesia musicale, tanto da poter vantare una capacità espressiva che è difficile da coniugare e trovare in un primo disco per di più fatto da giovani leve che suonano assieme da poco più di quattro anni.

Un disco di gioie e sguazzi di colore, un disco che parla di occasioni sprecate e di muri da sormontare, di mostri nell’armadio e di gioie nel guardare il sole anche nei momenti più bui.

Un album che pone la prima pietra nel cammino di questi giovani, con la speranza sempre presente di compiere il primo salto, una strada di certo in salita, ma che i nostri avranno la capacità di affrontare e soprattutto di vivere.

Emiliano Mazzoni – Cosa ti sciupa (Gutenberg Records)

Canzoni tirate, che si conficcano nella carne, un pianoforte malato che racconta storie di vita, perlopiù di amori fragili, nascosti e lontani.

Una commistione tra un giovane Tom Waits ricco di felicità sperata e il Bubola più intimo, intimista, raccolto da manciate di petali di rose che si fanno poesie.

E sono 11 le narrazioni contenute, in Cosa ti sciupa, disco dai tratti nudi e solitari, un orizzonte relegato all’impossibile, un cantastorie che si dipana tra ricerca e fortuna in un universo in continua espansione.

La voce è ricercata e mai banale e quando si tratta di comporre  questa si fa strumento e aiuto del pianoforte che Emiliano ama suonare e con cui compone ballate rock dal sapore indie e underground.

Si parla di vita, di morte, di fallimenti e fortune, sottolineando che quest’ultima è e deve essere una continua ricerca volta alla gratificazione; ma si parla anche di un costruire, di un comporre vite in modo delicato, quasi gelosamente nascosto; un mondo in cui la speranza è necessità e coerenza, abbandono e a tratti follia.

I pezzi scivolano inesorabili: meraviglie iniziali con Canzone di Bellezza per poi passare alle atmosfere di inconscia leggerezza di Un’altra fuga, lanciando percorsi serali in Non lasciarmi e lasciandoci al finale con Non rivedrò nessuno, ricordando il miglior Dino Fumaretto.

Liriche compresse, a volte lisergiche, sperimentazioni sonore curvilinee, incorniciate da racconti senza un tempo e senza una fine, ed è proprio questo il punto di forza dell’album: la mancanza di una matrice spazio/temporale in cui inserire le parole, che così facendo entrano in un contesto più ampio, onirico e oggettivo: un’immedesimazione soggettiva che va al di là del contesto vissuto.