Decabox – Dissocialnetwork (VREC)

Protesta sociale che si insinua in un rock indipendente che trae linfa vitale da quella capacità che non è di tutti di riprendere temi legati alla vita quotidiana per trasformarli in modo preponderante, attraverso un suono convincente che a distanza di tre anni dall’ultima fatica si riempie di improvvisazioni sonore che trasportano, comprimono e con eleganza ti portano a costruire nuove realtà.

I Decabox in fin dei conti fanno un gran bel pop radiofonico, ma con tutte le carte in regola per essere alternativi e provocando grazie a testi che si discostano pienamente dal costrutto di una musica mordi e fuggi.

Infatti i nostri posseggono la capacità di stabilire relazioni, creare legami  e convincere grazie a 11 canzoni ben costruite e suonate che si spostano su territori rock adrenalinico per incanalare la poesia che li contraddistingue.

Si parte con il singolo Fingere che tutto sia, per finire con Tempo fa in un continuo sali e scendi di emozioni che da quello che posso capire gli amanti dei live possono solo confermare.

Letlo Vin – Songs for Takeda (autoproduzione)

Un disco solitario che parla di inquietudini passate, vissute e compresse in un album ricercato, dalle sonorità folk ammiccanti al pop d’oltreoceano e coadiuvato da terapie Iveriane passando per lo Springsteen solitario di The ghost of Tom Joad.

Letlo Vin si concede di passare su territori glaciali, riscaldando vibrazioni contorte per scendere a profondità inesplorate e toccando apici di concretezza con cori e controcori e una voce che si innesta gradatamente fondendosi nel migliore Tom McRae.

Songs for Takeda è un album che dichiaratamente esprime un concetto, l’addio di Takeda, messo in atto da tre parti che commuovono e con sospirato sollievo rendono la vicenda viva e vissuta.

Masterizzato da Nick Petersen, il genio che ha dato vita al Mastering di For Emma, Forever Ago di Bon Iver, il disco si presenta come un forte impegno al disincanto narrando passioni e racconti che conquistano fin dal primo ascolto.

Un album maturo e compiuto, che parla di addii o forse di felici ritorni, un ritorno alla pace dell’anima che raggiunge e completa, che si inerpica e scalda.

 

Limes – Slowflash (Autoproduzione)

I triestini Limes ci sanno fare e lo dimostrano nel loro secondo album, dopo l’esordio fortunato di Essential che li ha visti condividere il palco con artisti del calibro di Motel Connection e Mojomatics, i nostri confezionano un ottimo prodotto chiamato Slowflash.

Un mix, il loro, di brit pop che fonde e confonde Blur e Coldplay passando inevitabilmente per l’oscurità di una musica che ha le proprie radici negli anni ’80  dotata di quel carico di sfumature tipico della scena new wave con Cure su tutti a sbaragliare la strada.

E’ un disco introspettivo questo che proietta i tre a compiere l’impresa di creare un cerchio concentrico dove far partire un labirinto mentale che si appropria di suoni semplici, ma convincenti e dove la batteria portante si condensa dando forme ad un continuo cambio di espressione che si evince dalla sostanziale  necessità di dare quel tocco in più all’usuale già sentito.

Ecco allora che il tutto si apre in dilatazione con Plume passando velocemente alle sincope di Hunting Party, si apre la via per la ricercatezza sonora in Pressure Variation e cercando alberi sovrapposti in Wood, azzeccata poi la strumentale Noise’s Room che porta pian piano alla coda di Plume II.

Sperimentatori triestini crescono e questo album ne è la dimostrazione, un connubio di strumentale e cantato che ben si amalgama con il concetto del disco.

I confini ora non sono più segnati, non si possono paragonare a nessuno questi Limes, finalmente hanno trovato il cammino.