Ladri di Mescal – La violenza del benessere (Autoproduzione)

Ci hanno portato via gli affetti, ci hanno portato via il tempo, ci portano via la felicità, ci sottraggono i respiri ai nuovi giorni che devono arrivare, ci hanno portato via la dignità e quella capacità che era insita in noi di creare, manipolare, scoprire, regalare e donare nuovi spazi al mondo che ci circonda.

Un’epoca, raccontata dai Ladri di Mescal in questo loro secondo cd autoprodotto, che parla con i nostri occhi, occhi che inseguono ambizioni per un futuro diverso, ma vedono nella richiesta di aiuto l’unica speranza per stare meglio almeno con noi stessi.

Musicalmente l’incontro tra diverse contaminazioni rende il suono piacevole e molto simile ad un classic rock di matrice pop con composizioni canoniche di strofa e ritornello.

Nonostante questo il suono risulta curato e in qualche modo coinvolgente, con incursioni di assoli elettrici in grado di far entrare in modo preponderante la sezione ritmica di basso e batteria.

Un disco che trasmette energia e messaggi, il tutto grazie ad un’elettronica ben calibrata e soppesata, quasi ad essere da sfondo per un tappeto sonoro mutevole.

Un album che sogna ancora che la violenza del benessere termini la sua ascesa verso nuove vittime contente, felici, di volere solo ciò che non si ha, nove tracce quindi di speranza e ragione sul domani, nove tracce di vitalità ponderata da ascoltare in un solo e unico istante.

 

Loop Therapy- Opera Prima (Irma Records)

Contaminanti, ammaglianti e abbaglianti.

Polvere di stelle che cade dal cielo per ricoprire uno strumento usato, vecchio , di legno lacerato, ma che incanta per disincanto; quello strumento pronto ad essere usato e accoppiato per esigenza a campionamenti in Miles Davis crashato per passare al funky, hip hop e alternative della migliore matrice.

Accoppiamenti singolari quindi si ascoltano con i Loop therapy che riescono con inspiegabile naturalezza  a tracciare una linea, un solco prezioso da dove poter attingere materiale per improvvisazioni infinite.

Si perché qui c’è l’elettronica, ma c’è anche il rap di strada, suonato con veri strumenti questa volta; c’è il dub, ma anche il free jazz con incursioni sonore degne della miglior scena americana.

Sembra di ascoltare, in questa Opera Prima, un rigore di fondo che in qualche modo contrasta e si accende a contatto con la polvere di un palco ammorbidito dal tempo e dalla stagionatura del palquet.

Un album che vede diverse collaborazioni come Bassi Maestro, Turi e Colle der formento ad impreziosire ciò che lo era già di per se.

Un raccolta di immagini che il solo ascolto in loop per giorni e giorni non riuscirebbe a stancare le orecchie più labili.

Ecco allora che il pregio di questa piccola opera monumentale sta nel fatto di poter raggiungere nuove menti e nuovi occhi rimanendo inalterati, senza scendere a compromessi, vivi.

 

 

 

This is not a brothel -This is not a brothel (Autoproduzione)

Questo non è un bordello, primo album omonimo dei This is not a brothel.

Un’incursione nell’Italia più cupa, poco serena, oscura dove il manipolo dei corpi e del potere si stagliano lungo mete che non hanno nessun traguardo, ma solo sogni che non lasciano più scampo, che non lasciano traboccare i fiori, ma si inerpicano nei pensieri più reconditi di noi poveri umani, per raggelare i cuori di chi, a stento, riesce a vivere tutti i giorni.

Bocche che si innalzano per mangiare corpi, fiori dalla sola parvenza che sono pronti a trasformarsi in materiale di decomposizione per generare semi di follia.

Un suono granitico, lacerante che incontra il grunge di Seattle all’indie rock di stampo newyorkese.

11 brani che ripercorrono un declino spaventoso, una musica non per tutti, una musica fatta di vibrazioni sospese tra un declino memorabile e una rinascita sperata.

Un gruppo questo, che al suo primo esordio, confeziona una prova convincete, sudata e inglobante.

Come barca in mezzo alla tempesta, come albero che scava nella terra, come l’uomo che smarrisce l’anima dentro al mondo.

We love surf – Up and riding (Curaro dischi)

Il sole in faccia, le spiagge affollate, ma non troppo, il gusto di bere qualcosa di ghiacciato, un sound fresco, genuino; letterato colante che si scioglie grazie al calore di un estate in moto perpetuo.

Andrea Marcori e co. ci deliziano con 10 prelibatezze in uscita il 1° giorno di Primavera: stagione del disincanto, del rinnovo e della rinascita.

Un disco che racchiude al proprio interno tutto ciò di cui abbiamo bisogno in una giornata di sole, mentre il mare sotto ai nostri piedi scorre tranquillo e i ritornelli ci invadono la testa mentre la sera tarda a venire, mentre il buio è votato a durare poco, per il capolino della luce che inaugura un nuovo giorno: elettrizzante, spensierato e soprattutto atteso.

Ragazzi da spiaggia quindi che in qualche modo prendono il lato malinconico dei primi “Beach boys” per portarlo in un sound 2.0 originale e costantemente in evoluzione.

Si passa velocemente da pezzoni apripista come “Days at the shore” fino allo swing spazzolato di “Still running”, senza tralasciare la sofisticata ballata “Wild boy” e il finale con l’eccentrica “Summer”.

Un disco che è un tuffo nel passato, lasciando all’immaginazione il riempimento della tavolozza di colori che racchiude questo album dalle tinte pastello con brio.

Dai gusti tenui e delicati, senza osare troppo, i We love surf portano a casa un disegno preciso e un obiettivo concreto: quello di riuscire a imprigionare il calore del sole in poco più di 10 cm e credetemi ci sono riusciti!

 

Sycamore Age – Remixes/Reworks (Santeria)

cover sycamore agePersi nella notte, nella nebbia fitta che avvolge il disincanto di una vita passata a suonare per il nulla che avanza, poi arriva l’elettronica che, ambiziosa, tende a far ripartire il tutto da dove ci eravamo lasciati, aprendo la mente a nuove idee e possibilità di sperimentare azioni, tempi e dilatazioni.

Poi arrivano anche i Sycamore Age, un incrocio perfetto tra gli sperimentali Radiohead, i trascendenti Sigur ros e il martellante Aphex Twin a generare in modo maniacale e pressoché perfetto melodie urbane da loft incandescenti.

 Un album formato da rivisitazioni di loro pezzi e da remix di lavori della scena indie conterranea e internazionali, si perché c’è anche Happy!!! dei newyorkesi Akron Family.

Un disco ricco di architetture geometriche in relazione costante con l’apparato, il mondo esterno che ci circonda, in grado di ricreare un tutt’uno con la mente dell’ascoltare, un gruppo certamente in grado di entrare in simbiosi facilmente con le anime deturpate del nuovo decennio che continua inesorabile.

Ecco allora che le cavalcate strumentali si fanno sentire in “How to hunt a giant butterfly” dei Julie’s haircut, mentre forse la perla del disco è racchiusa in “Binding moon” degli Aucan che è in bilico tra il cosmico delirio e la melodia congegnata che fa capolino al primo ascolto.

Remixes/Rewors è un album che sprigiona potenza ed energia, contaminazioni elettroniche e prog rock portato all’infinito.

Sentiremo ancora parlare di loro, certamente per qualcosa di veramente buono.

Barbara Cavaleri – So rare (Wasabi Produzioni)

Tappeti sonori che sembrano foglie giovani di Primavera, un incrocio di alberi che si innestano a ricreare un vissuto di esperienze ultraterrene che si divincolano sapientemente tra melodie che intrecciano Lali Puna alla canadese Morisette, passando per l’italiana Lubjan.

Un concentrato di suoni che cercano un contatto, una connessione con gruppi extra territorio nazionale come Placebo, Editors e Radiohead su tutti.

Echi di quest’ultimi si concentrano nelle basi ritmiche e dai contrappunti di synth che per l’occasione vedono la presenza di Leziero Rescigno, attuale batterista e tastierista con Amor fou e in precedenza nella formazione dei La Crus.

Un suono quindi che ammalia e che avvolge, lasciando lontano i pensieri inutili e ricreando un’atmosfera molto soffusa dove la perfezione si tocca e si percepisce in pezzi come la “graciana” “Desire” o la suadente “Just do it again” passando per la bellezza ammaliante di “Home” .

Barbara Cavaleri porta a casa un disco fatto di sogni, speranze e soprattutto grazia, una grazia immacolata ricca di sfumature e lontana da tutto ciò che può sembrare banale.

Una prova dal volto maturo che strappa ricordi al passato lontano.

Moostro – Moostro (Autoproduzione)

moostroo[1]Questo è Lindo Ferretti che incrocia il cantato-preghiera con il punk più nervoso e malato di CCCP, un suono curato, ma allo stesso tempo sporco, un odore di putrefazione che si accosta al profumo di una rosa appena sbocciata, un’estate che sconfigge l’inverno per lasciare posto al bello e al nuovo.

I “Moostro” con questo loro primo full lenght ci regalano emozioni che si perpetuano lungo le nove tracce del disco, un’assordante e silenziosa melodia che ci magnetizza e con ironia importa caratteri adolescenziali nel passaggio  all’età adulta.

Si ascolta con leggerezza “Il prezzo del maiale” come “Silvano pistola” anche se sono pezzi che ci fanno riflettere sul movimento circolare della vita che tutto prende se non sei tu a far qualcosa per cambiare.

Ecco allora che arrivano dirompenti “Underground” e l’autolesionista “Mi sputo in faccia”…controvento, un inno generazionale sulla disillusione e l’ineluttabilità.

Un disco che brilla di luce propria, particolare e azzeccato per il nostro tempo.

E poi quel cane in copertina, grosso, lento, con il pelo fin sopra gli occhi, non può vedere e non può sentire, forse quel mostro siamo noi?

Il mercato nero – Società drastica (SeahorseRecordings)

Un rap che si trasforma in musica Indiepoprock.

Qual è la formula alchemica di tutto questo? Qual è questa capacità di mettere in rima parole con basi musicali che non sono loopate, ma suonate in modo perfetto con strumenti “comuni” e l’aggiunta si sintetizzatori?

Il mercato nero, al loro primo disco, mette assieme frasi condite con un velo d’ironia scalciata dalla drasticità della vita, una vita non fatta nella strada, ma per la strada, una vita che risucchia il tutto che viene rielaborato grazie all’utilizzo del vintage anche nel generare suono.

Ecco allora che il vecchio incontra il nuovo, il nuovo che non è sempre positivo, non è sempre portatore di sani principi e il “Mercato nero” lo sa bene in quanto in questa loro  “Società drastica” il tema, il senso del disco si evince già in “Esche vive”: presagio di un mondo corrotto, avido e utile nella sua inutilità.

Si snocciolano bene poi gli altri brani, a rimarcare in modo ancora più netto le parti che siamo in qualche modo obbligati a recitare, fanno fede pezzi come “Tossico”, “Demoni” e “Inferno”.

Il tutto suona come una fotografia che cola colore, che si lascia sporcare attingendo dalla voracità dell’abisso una linfa nuova per emergere dai sobborghi industriali, un bianco candore a denunciare i pericoli del mondo moderno, una poesia in rima quindi che scalcia con gran classe gli stereotipi quotidiani.

 

Peregrines – Proximi Luces (Autoproduzione)

Melodia ultraterrena che abbraccia il suono degli angeli e li riporta inesorabilmente a terra.

Tra la gente comune tra luoghi dove poter rilassarsi ascoltando echi di Fleet Foxes, Simon e Garfunkel e Kings of convenience, con un pizzico di Of monsters and man mescolati al buon Vernon in arte Bon Iver.

Strumenti che danzano e si divincolano tra le note di pianoforti, banjo, violini ridenti  e chitarre a creare quel circolo di aspirazioni che hanno un concreto sviluppo nell’incedere dei brani.

Una musica quasi sussurrata a porre in primo piano ciò che è importante: la luce.

Un disco sulla parte buona del mondo, un disco di speranza e caparbietà che prende l’indie-folk d’annata e lo rivisita  in modo originale, lasciando intendere una ricerca soprattutto sul piano vocale e di voci addizionali che si presentano in maniera puntuale a fare da sfondo a Sean artefice assieme agli altri Peregrines di questa magia musicale.

Di magia si tratta e le basi per un incedere evocativo ci sono tutte, un album quindi che prende il folk, associato spesso alla parte malinconica di ognuno di noi, per trasformarlo in sostanza in perenne mutamento.

Un piccolo gioellino da avere, da ascoltare e da far conoscere a chi ci regala un sorriso di luce.

La madonna di mezzastrada – Lebenswelt (Il mondo della vita) – (Autoproduzione)

Raffinato indie rock agrodolce che si staglia inesorabilmente lungo le giornate come spennellate di nero su di un muro già sporco dalla fuliggine di tutti i giorni.

Quei giorni spesi  a ricucire, a ristabilire un ordine, che non è mai stato ordine, ma solo un riporre su delle mensole dell’infanzia automobiline dalle porte aperte che prima o poi verranno chiuse.

E’ questo il senso del disco e della vita che vogliono dipingere “La madonna di mezza strada” impegnata a ristabilire il senso principale dei nostri cammini, delle nostra parole, delle nostre emozioni.

Testi introspettivi, ammalianti quanto basta, che possono splendere di luce propria solo durante la lettura, solo dopo aver letto le prime parole de “Il mondo della vita”.

Ecco allora che “Lebenswelt” si concentra sulla forza dirompente delle parole associate al vuoto che avanza, che si contrappongono a suoni lisergici di matrice anni ’90 con incedere di chitarre distorte, ricordando “CSI” fra tutti.

Un album ricco di istantanee, quasi a voler fermare il tempo, quasi a voler raccontare sprazzi di vita, di un mondo che ci appartiene si, ma di un mondo che allo stesso tempo risulta decadente quanto basta per far si che le nostre azioni diventino pura routine d’intrattenimento.

Un gruppo da tenere sott’occhio nelle prossime uscite, direi  una vera sorpresa, forse la miglior sorpresa del 2014.