gaLoni – Troppo bassi per i podi (29 Records)

untitledEmanuele Galoni è un cantautore atipico a cui piace sperimentare suoni, strumenti e arrangiamenti che in qualche modo si legano al passato guardando al futuro.

Instabilità non gridata, ma celata da quel procedere a tentoni all’interno di una città che ti inghiottisce, che prende tutto il meglio di te per trasformarlo in un qualcosa di indefinito senza occhi per vedere e cuore per sentire.

Un circolo di conseguenze che si snoda tra piano e chitarra, accenni di indie pop  toccanti quanto basta per lasciare spazio a melodie più acustiche e d’atmosfera prendendo il tempo e trasformandolo in perle da coltivare e lucidare, trasformandolo in oro colante che si rende corona per il nuovo re che verrà.

Una dolcezza disarmante quella che si snoda lungo le 11 tracce, un amore in distruzione, che si ascolta tra i testi strampalati e strappalacrime del singolo di debutto “Carta da parati”.

Una corsa a perdifiato lungo l’intimismo e la vita di molti di noi che diventano ricchi e poveri in un batter di ciglio; quella ricchezza di sentimenti che si rischia facilmente di perdere in un mondo dove le relazioni non esistono più.

Ecco allora che Emanuele lungo tutto il disco ricuce ciò che non esiste, trasformandolo in una meraviglia da indossare e portare nella rigidità dell’inverno e nella leggerezza dell’estate.

Cibo – Incredibile (INRI)

1779113_10152158005012356_25528431_nCibo un gruppo per chi ha veramente molta fame di quel cantautorato italiano post 2000 che si mescola all’ hardcore più suonato e sfrontato, unendo grida heavy e gutturali a suoni che per disincanto ricordano un progressione poco comune tra l’improvvisazione di Mars Volta, la grinta di At the drive-in e le lisergiche chitarre di Area e Banco.

Un suono sporco, ma ritmato, poco usuale, con entrata in trionfo di riff elettrici e subordinati ad una sostanza in continua evoluzione.

I cibo si dedicano ad un lavoro di cesellatura maniacale, cercando di apparire, tentando di creare un moto costante e in qualche modo un disco che si prende in giro e al contempo prende in giro il mondo moderno e discontinuo.

Per certi versi  questa nuova scena hardcore lascia ben sperare in quanto il fattore novità consiste nei testi congegnati per finire nel concept di scrittura creativa che aiuta band come questa ad emergere dal mucchio ondoso per farli respirare aria nuova ed elettrica.

La band torinese si fa ricordare per pezzi come Asterione, Salutami il mare, T-rex di verdeniana memoria e per l’incantevole Guardaquantammerda.

Un disco da ascoltare tutto d’un fiato, facendo ordine nel caos mentale, nulla di più, ma soprattutto nulla di meno.

The Gluts – Warsaw (Autoproduzione)

glutsRumori e suoni dall’oltre mondo si riassociano ad un vibrato consolatorio che lega una voce ricca di echi sonori quasi ad arrivare da un altro pianeta, da un altro antro dove rifugiarsi, dove far rifugiare la bestia che è in Noi pronta a scatenarsi contro le inesorabili oppressioni che circondano questo primo disco dei “The Gluts”.

La band milanese formata da Nicolò Campana, Marco Campana e Claudia Cesena riassume un concentrato di dark, new wave e rock in modo quasi naturale, quel piacere estinto di fare grande musica in modo sincero e oltremodo sicura.

Sicura del fatto di avere degli estimatori che si sciolgono sotto il possente incedere del basso e della batteria che fanno da apertura lunare a chitarre e voce di altri tempi.

Si possono ascoltare echi di Joy Division, ma anche cose molto più recenti come Editors o Alice in chains, tanto il passaggio tra varie epoche storiche riassume in modo perfetto il modo dei The Gluts di suonare e comporre.

Un disco quindi fatto di momenti eterei e psichedelici alternati ad un suono più battuto e meno immediato, ma sicuramente di pregevole fattura come in “Rag Doll” o nella progressione sonora di “Iceman” a ricordare il fortunato esordio dei Vanity.

L’album poi si apre al lato b, dato che questo è disponibile solo in vinile numerato o nella canonica forma in downloading e lascia presagire nuove forme di comunicazione con pezzi sostenuti lasciando il finale alla bellissima “Don’t believe in fairy tales”.

Un gran bel disco questo, complesso, maturo e in parte originale, dove gli elementi si associano in modo quasi magico, a formare quell’alchimia segreta che fa girare il mondo.

The Chanfrughen – Musiche da inseguimento (Maia Records)

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Spudorati e oltraggiosi, contagiosi e con un animo vintage che fa accapponare la pelle.

I Led Zeppelin sono tornati e si chiamano “The Chanfrughen”, cantano in italiano, e provengono dalla Liguria, fanno un rock and roll sporco contaminato dal blues e dal funky mescolando il tutto in un enorme calderone e filtrando solo la parte necessaria per dare forma alla sostanza perduta, a quel rock sudato che mancava da tanto tempo nella scena italica e che ora rivive grazie a questi tre giovani talenti.

Un continuo vibrare di chitarre fuzzeggianti in distorsione delineano il campo d’azione marcandolo in modo netto e distinto, ogni singola nota ha un suon valore e nulla è lasciato al caso tranne che in rari sprazzi di improvvisazione sonora.

Ecco allora che il suono più nero e cupo si mescola in modo naturale con il prog di gruppi storici come Area e Banco tanto per citarne alcuni, una realtà che rinasce quindi rinvigorita grazie all’apporto costante di una presenza che si fa presente nel ricordo.

Una personalità chiara e distinta che si evince soprattutto in pezzi come “La testa di Gorbaciov”, “Rizzo scopre l’inghippo” o nell’altalenante sali e scendi di “Primo premio un prosciutto”.

Dopo queste 11 canzoni, ne sono certo, sentiremo ancora parlare di loro.

Paolo Bernardi Quartet – …plays Aznavour (Sifare edizioni musicali)

Il jazz rivisitato e rivisto, un cuore che pulsa verso l’infinito, adocchiando nelle galassie più lontane note improvvisate e lasciate andare cullate dalle onde intergalattiche di tasti bianchi e neri che si divincolano in piani sequenza che vedono lo stagliarsi di strumenti quali sax, contrabbasso e batteria.

Al piano invece il grande jazzista romano Paolo Bernardi, un nome che non ha bisogno di parecchie presentazioni, che gioca con la sua vena poetica creando bellissimi contrattempi intagliando Aznavour da un pezzo di legno già perfetto di per sé trasformandolo in materia musicale, strumentale e pensante.

Ci sono tra le altre le bellissime “Com’è triste Venezia”, “L’amore è come un giorno” e a coronare questo sogno incastonato appaiono “Autoritratto” e “Mon ami” due brani che scavano nell’interiorità del pianista cercando di creare un filo, un collegamento Italia-Francia che spezza le barriere e si fonde in un unico grande suono.

Un disco tecnicamente impeccabile, fresco e genuino che potrà deliziare i numerosi cultori del genere o le serate in riva al mare guardando il blu cobalto che vira in luce notturna.

Ilaria Viola – Giochi di parole (Lapidarie Incisioni)

Nella mia piccola casetta ultimamente arrivano delle maledette buone cose.

Tra gli ultimi cd trovati nella cassetta della posta spicca Ilaria Viola, cantautrice romana, che dopo numerose esperienze come la creazione del collettivo “L’Orchestra del Condominio” si lascia andare verso mondi diversi e ricchi di sfaccettature confezionando un disco d’esordio, contaminato da influenze extra italiane ed extra europee toccando principalmente quel genere legato ad una bossa – nova/samba e dal folk più cantautorale e indipendente.

Otto sono i brani che si snocciolano in modo sapiente come l’interno illuminato di una sala prove circondata da maestosi alberi che riparano dal sole e ricreano le istantanee per un sicuro avvenire.

La cantautrice confessa di aver creato questa perla musicale perché in qualche modo ne aveva bisogno, lo sentiva dentro di sé, quel sé che si appresta ad esplodere così vero, essenziale, contagioso: un flusso continuo di parole che rende autobiografico ogni passo nel cammino segnato.

Ci sono echi di Vinicio Capossela, ma anche il ritaglio di una voce inconfondibile quella di Petra Magoni che ispira il cantato di Ilaria per farla ascendere verso nuove altitudini in divenire.

Pezzi che si fanno facilmente ricordare sono certamente “Le buone intenzioni” e la visionaria “Come d’estate”.

Un disco per tutte le stagioni, sperimentale quanto basta per portare ondate di freschezza continua.

Perché alla fine sono i giochi di parole quelli che ci fanno sentire vivi e che ci fanno comunicare nuove cose, nuove idee e nuove sensazioni. Grazie Ilaria.

Banda fratelli – L’amore è un frigo pieno (Contro Records)

Una confezione più insolita risulta assai difficile da trovare.

Un packaging asciutto, da conservare in frigo e da gustare ogni giorno in quanto privo di data di scadenza, ma che invita ad essere tenuto all’interno del lettore una volta aperto, così da poter sentire ogni vibrazione che questo insieme strampalato di canzoni riesce a donare rinvigorendo i prati.

“L’amore è un frigo pieno” è il secondo album dei cuneesi Banda Fratelli.

Il tutto suona come una centrifuga dove le parole sono pesate, calibrate a formare un circolo di poesie terrene, storie di tutti i giorni dove l’amore è elemento portante, tutto gira attorno ad esso sottolineandone meriti e disgrazie e allo stesso tempo il disco racconta in modo stralunato l’umanità in declino con vizi e nostalgie per un passato che non potrà più tornare.

 Un album ricco di contenuti, questo, che vede alla voce: produttore artistico Fabrizio “Cit” Chiapello di Transeuropa Studio già al lavoro con Baustelle e Subsonica.

Un disco genuino quindi che si differenzia in modo sostanziale dal precedente per una maggiore maturità sia musicale che di contenuti legati in primis ai testi disillusi e allo stesso tempo impegnati.

Rimangono facilmente pezzi come “La rivoluzione sessuale” o la ballata neo classica “Gocce di Chanel” passando per la malinconica “Nuvole” e il finale “Aspettami alzata” .

Un frigo pieno quindi di racconti, amori e primavere che devono ancora arrivare, un disco dal sapore dolce amaro che ti fa immedesimare in un istante in situazioni dove i protagonisti potremmo essere tranquillamente Noi.

Mentivo – Io sono la verità (Libellula Label)

Dirompenti  e hard, eleganti e allo stesso tempo sincopati, ricoperti di cioccolato amaro che trasforma la loro città natia in una cascata di fluido incorporeo dove lasciarsi andare alle parole che non vanno per il sottile, ma che con affronto dimenticano il passato per sputare in faccia al presente, fatto quest’ultimo di sogni infranti e caramelle troppo salate da poter succhiare ancora.

In bilico tra sonorità cantautoriali e indie rock e andando a braccetto con melodie stile Appino e co. i Mentivo confezionano un album ricco di percezioni extrasensoriali dove storie di tutti i giorni combattono inesorabili contro un muro di granito inespugnabile.

Prodotto e registrato da Giacomo Fiorenza (Moltheni, Offlaga, Marco Parente, Paolo Benvegnù) e Andrea Suriani (My Awesome mixtape, I cani, Gazebo penguins), l’album segna in modo netto e radicale l’esordio di questa band umbra che si muove attraverso territori poco battuti e dove gli appoggi sembrano mancare, anche se la qualità si sente lungo i dodici pezzi.

La strumentale “Quello che possiamo” apre bene in modo indie-arcano e passa con velocità alla “Gente comune”: inno del disco dove al proprio interno troviamo gli elementi che caratterizzano l’interezza delle composizioni che susseguono.

“Gli ex” è poesia lavorativa, mentre “Amore a tre” ricorda il Brondi migliore.

Si passa velocemente alla ballata “A casa di lunedì” passando per lo stoppato beatlesiano di “Vertigine”, chiude bene l’evocativa strumentale nel finale “Tentativo di chiusura” che lascia in qualche modo le porte aperte a ciò che verrà.

Un album praticamente perfetto, un disco che si cimenta con una prosa innovativa, senza peli sulla lingua e allo stesso tempo con uno stile affascinante; un gruppo che a mio avviso dovremmo tenere sott’occhio, soprattutto in chiave live, territorio dove i nostri si confermeranno forti del fatto di non essere una sola immagine riflessa in uno specchio, ma materia pensante e preponderante.

 

Molla – Prendi Fiato (Jazz Engine)

untitledLuca Giura, in arte Molla è un polistrumentista a tutto tondo della scena barese che in questo
nuovo progetto riveste di lucentezza i testi di Ambra Susca e con meravigliosa inquietudine li trasfigura
donando loro attimi di bellezza immediata.
Debitore di un suono legato ai conterranei “La fame di Camilla” e con piglio brit pop calcolato ci regala un album
che è un concentrato di canzoni legate alla distanza da raggiungere, da percorrere per cambiare,
da far assaporare, dal desiderio di uscire dall’apnea costante dei vincoli dell’amore gridando al mondo intero
un nuovo messaggio ricco di speranza.
Ecco allora che le basi ritmiche si fanno incalzanti con una voce ammiccante, quasi a ricordare il migliore
Moltheni dei tempi che furono: un intreccio di istantanee che si fanno idealizzazioni di luoghi in
continuo mutamento, un continuo cambio d’abito nell’incostanza della vita, un movimento perpetuo lungo
la pista della vita.
Canzoni come “Barbie ’83” o la bellezza leggiadra di “I nostri occhi” riempiono i pensieri sottolineando
l’importanza del progetto e la cura con la quale questo è sbocciato.
Meraviglia sonora poi la possiamo ascoltare in “Prendi fiato”:
“Ti sentirai senza fiato e troppo stanca per riempirti ancora” un’inesorabile discesa negli abissi
della coscienza dove il cuore non è più cuore, ma materia persa nell’oscurità.
Un disco ricco di speranza questo, che ingloba l’amore del mondo e per il mondo in 10 tracce
pop dal sapore dolce-amaro.
Un album che si fa gabbia aperta dove chi dentro ci vive è pronto per spiccare il volo.

Leo Pari – Sirena (Gas Vintage Records)

Comprerei questo album solo per la bellissima, evocativa copertina e l’esclusivo packaging che fa da contorno ad un disco che dire splendido è dire poco.

Produzione curata, cantautore altrettanto curato e con un certo piccolo, grande stile che si differenzia nettamente da molte realtà della scena underground italiana.

Leo Pari si innalza e lo fa vincendo, si innalza come nuvola guardando il mondo dall’alto e raccontando storie, le storie di tutti, che riviste possono entrare facilmente nei cuori degli ascoltatori, storie che si fanno parole leggere pronte a stupire, lasciando una leggera amarezza per quello che non si è fatto, per quello che era possibile fare ancora per sopravvivere.

Ecco allora che tutto assume il contorno di una poesia in loop continuo, un girotondo in fondo al mare tra sirene che vogliono essere umane per uomini pesce che non lo saranno mai.

Emblema di tutto questo lo possiamo ascoltare in “L’uomo niente” canzone simbolo che racchiude il significato dell’intero album “Io sto annegando in questo mare di perplessità”: la decadenza, l’abbandono, il senso di vuoto che si crea intorno quando non è più possibile continuare, non è più possibile reagire e solo i pensieri inondano inesorabilmente la nostra testa.

Un album curato nei minimi dettagli, mixato da Tommaso Colliva, e con la presenza di Roberto Angelini ad impreziosire il tutto.

10 grandi canzoni che con eleganza si fanno portavoce della solitudine ricreando un mondo fantastico dove con un solo sguardo si riesce ancora a respirare.