The delay in the universal loop – Disarmonica (Jestrai, Factum Est)

Image of Disarmonia [LIMITED]Secondo episodio per la Factum Est, mini etichetta della Jestrai che infila una dietro l’altra delle novità che si contraddistinguono soprattutto per l’originalità della proposta e per l’esportabilità di questa anche in territori oltre confine.

Questa volta ci troviamo davanti ad un album composto interamente da un giovane che si ricava un posto nell’universo musicale lontano anni luce dal mainstream e dalla pagina internet patinata.

 

Qui c’è solo pura improvvisazione e il risultato è un miracolo.

Accolti da atmosfere alla Aphex Twin, Radiohead e Verdena l’album è un mescolare eterogeneo di cambi ritmici, sonori e di ambientazioni creando un qualcosa di similare, anche se più complesso, al percorso intrapreso dal cantautore pugliese Trivo.

Ciò che stupisce maggiormente è che Dylan Iuliano, fautore di questa opera, è un giovane di soli 17 anni capace di creare abilmente architetture imprevedibili e leggiadre nella loro disarmonia.

Sembra di ascoltare un post “Amnesiac” tanto le trovate risultano geniali quanto le regressioni ipnotiche si fanno presenti senza mai abbandonarti.

Inoltre notevole la scelta del cantato in italiano, così lontana dalle scelte stilistiche a cui uno è abituato ascoltando questo tipo di musica.

Un album alieno di una bellezza confortante che si lancia in spazi cosmici con “Eternauta” per poi sprofondare in “Memorie dal sottosuolo” verso atmosfere da guerre stellari, “I miei nervi scoperti” è un continuo brivido, mentre “Spasmodica” si compone e si decompone per essere ascoltata più e più volte.

Il finale è assegnato allo splendore strumentale di “Nei nostri eterni giorni” che racchiude lo spirito del disco attraverso sintetizzatori e continui loop di batteria.

Tanto stupore quando si spegne lo stereo e un plauso per aver saputo osare con stile riuscendo in un’impresa che sicuramente non era facile già in partenza.

A Febbraio Dylan sarà impegnato in un tour americano che toccherà New York e Dallas, con l’augurio che faccia brillare qualche stella d’italianità anche oltre oceano, ne abbiamo bisogno.

Rubbish Factory – The sun (Modern Life)

Canzoni che si ascoltano tutte d’un fiato.

Energia viscerale che ti prende la pancia e regala continui riempimenti d’amore verso la musica targata ’70 incrociata con il miglior garage rock da extrasistole ultraterrene, cadenzato da una batteria ben impostata e una chitarra altrettanto energica quanto fuzzeggiante che ricorda QOTSA e a tratti i Verdena di “Solo un grande sasso”.

Una prova che ha del particolare in questo duo cupo e amalgamato che regala spunti di oscurità dove poter affogare dolcemente.

Un ritorno quindi all’essenzialità virata dalla capacità di snocciolare pezzi orecchiabili seppur mantenendo un certo ordine e una certa linearità.

11 pezzi gridati che non risparmiano virate di colore toccando ambienti grunge con una facilità disarmante “Wires” ne è l’esempio, si può ancora sentire la voce di Laney Staley in tutto questo.

Un duo che va dritto al punto, che si divincola con una proposta non di certo innovativa, ma ricca di fascino e facilmente  esportabile.

Un merito quindi per aver donato una nuova interpretazione di genere cavalcando sentieri già battuti si, ma allo stesso tempo lontani dalla spazzatura musicale di tutti i giorni.

 

 

EUA – Tanto valeva viver come bruti (Autoproduzione)

Questo è un album che non dimenticherò facilmente.

Questo è un album coraggioso a dismisura.

Questo è un insieme di strutture che intensificano fraseggi di canzoni divertenti, sarcastiche e memorabili.

Questo sono gli EUA band emiliana che a sei anni dall’esordio, regala agli ascoltatori un album decisamente fuori dal coro e ricco di quella genuina allegria che a dire il vero un po’ mancava nel panorama nazionale.

Stanchi, immagino anche loro, dei cantautori che cavalcano la scia e fatti con gli stampini del didò, gli EUA mettono insieme un concept album sulla libertà, l’amore e il disincanto, ma allo stesso tempo percepiscono la protesta come forma indispensabile per poter progredire.

Un album quindi ricco di canzoni tormentone che sembra quasi un doppio, anche se non lo è, infatti è suddiviso in due parti principali “Disomogeneizzati” che potrebbe benissimo essere il Lato A, mentre “Poemi Euico-cavallereschi” il Lato B o meglio la parte più riflessiva e introspettiva del tutto.

Sei ragazzi per quattordici pezzi che volontariamente, direi io, hanno cambiato il modo di fare musica, dimenticando l’oscuro come territorio di sperimentazione e facendo intravedere la luce ad ogni singolo secondo di musica.

Debitori di un suono alla “Elio e le storie tese” con cambi vertiginosi di stile alla “Frank Zappa” gli emiliani ci lasciano pezzi memorabili come “Extrasistole” o “Cooperativa sociale”, per calarsi poi in territori extraterrestri con “Cinematica dei manipolatori” o in sublime malinconia con “Stella d’inverno dell’ovest”.

Un disco da ascoltare più volte, che in qualche modo rispecchia uno stile di vita a denuncia di un popolo, il nostro, che è ancora troppo legato ai cliché.

Un passo avanti quindi, reso possibile abbattendo stereotipi e raccogliendo il meglio per il futuro.