Softone – Tears of lava (Cabezon records)

http://www.cabezonrecords.com/wp-content/uploads/2013/10/1381148_10202206070854354_544654607_n-195x186.jpgSoftone è sinonimo di grazia avvolgente.

Calda coperta desertica che mescola i migliori fratelli Gallagher con un rock slide e fuzz che ricopre esigenze mistiche di ritrovare la propria strada lungo un sentiero dove la siccità avanza inesorabile a creare un senso di tepore quasi marginale al suono che genera.

Un’improvvisa alba che si snoda dolcemente tra le sagome delle montagne e attende viaggiatori incompresi verso mete infinite.

Le sei tracce corrono tra strade impervie, dando un significato al percorso che per il gruppo partenopeo, alla sua seconda prova, è sinonimo di rigenerazione da un punto di vista strutturale di impianto e di prestigio calcolato.

Ogni nota di canzone è preziosa quanto acqua che cade avvolgendo i ricordi di malinconia e nostalgia.

Si ascoltano echi primordiali di Verve passando per Stone Temple Pilots, Stereophonics e lungo le sei tracce l’ascoltatore è portato ad immergersi in toto nel concetto  trasmesso.

Una strada sempre precisa da seguire che si apre in magnificenza nella bellissima traccia numero tre “Somewhere over” e nel finale di ” Ray of Light” di Lynchiana memoria.

Bisogna dire che anche stavolta Cabezon Records valorizza talenti spaziando di genere in genere, costruendo fitte trame di luce in un periodo così tanto buio.

Joseph Martone and the travelling souls – Where we belong (Autoproduzione)

joseph martone Due cugini: Joseph Martone cantautore di origine campana, ma con radici impresse nel sound del sud stelle e striscie, e Tom Aiezza già collaboratore, fra gli altri, di Bob Dylan e Neil Young.

Un legame che va oltre l’apparenza e che dopo un periodo lungo di gestione porta al compimento del primo album autoprodotto “Where we belong”.

Un sound desert dark rock con incursioni folk e cantautorali  dove alla chitarra acustica, sempre in primo piano, si affiancano fisarmoniche, harmoniche, trombe e sintetizzatori che amalgamano una scena condita di classic senza essere troppo esuberante e valorizzando fino all’ultimo strumenti per quanto conosciuti, del tutto inusuali.

Viaggiare quindi nel deserto del Mojave con appresso una coperta e la possibilità di accendere un fuoco che scaldi una notte fatta di ricordi e pensieri dove passati incrociati regalano emozioni da condividere ad ogni fiammella che divampa.

Canzoni incisive si ascoltano nella bellissima e solare apertura “Show me the way” per proseguire con la Caposelliana “Ego sum”, unica traccia in italiano del disco.

Un brano che ricorda il miglior Tom Waits lo troviamo in “Once”, mentre la canzone di chiusura “Shine on me” rilascia magicamente polvere di stelle.

Canzoni d’amore e di abbandono, solitudine e speranza, morte e vita fanno da perfetta colonna sonora al cowboy dal corpo stremato che avanza inesorabile su granelli infiniti di sabbia giallo sole nell’attesa che l’acqua scenda dal cielo e ricomponga le parti perdute.

The singers – The singers (Cosecomuni)

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Succede spesso di incontrare gruppi che hanno un buon tiro, registrazioni impeccabili e andirivieni di fraseggi chitarristici da cori da stadio.

Capita però con meno frequenza di imbattersi in band con un sound maturo, seppur al secondo disco, portanti di un’energia che involontariamente esplode come fosse un modo per assistere ad un live nella poltrona di casa.

I The Singers nel loro omonimo regalano 10 canzoni di incrocio tra pop e new wave, a tratti sembra di stare dentro al film Kellyano “Donnie Darko”, altre nella colonna sonora di “Beverly Hills” o “Dawson’s Creek”, il che non ha nulla di negativo anzi il gruppo è sempre alla ricerca della canzone alternativa perfetta: orecchiabile, ma allo stesso tempo con appeal underground.

I cinque mantengono quindi le promesse, sanno cosa vogliono e lo sanno fare bene, canzoni che colpiscono sono certamente “Toronto” e “Flowers in Navona” altre ricordano invece evocativi ricordi come in “Maestro” e “Alice”.

Un miscuglio quindi eterogeneo di stili da “Spandau Ballet” a “Tears for fears”, dai più attuali o quasi Placebo alle cavalcate potenti di Nickelback.

Unica pecca dell’album a mio avviso, è che ad un certo punto le canzoni suonano un po’ tutte uguali: l’originalità nel complesso si sente eccome, un po’ meno manca la canzone che emerga in modo preponderante rispetto alle altre.

Resta comunque una bella prova, velata di rosa e conturbante quanto basta: creata per far innamorare.

Facciascura – Stile di Vita (Cabezon Records) SuperAnteprima!!!

Facciascura – Stile Di VitaPotenza e illusione del volo, capienza di stili che vanno a confluire in unico corpo fin dentro le ossa di un cercatore di tesori nascosti.

Ci sono band che colpiscono al cuore e alle viscere, che ti lasciano senza scampo colpendo precisamente i punti vitali, i punti emozionali e lasciandoti a bocca aperta per un bel po’ di tempo.

Tra questi ci sono i “Facciascura” band veronese che al secondo album, prodotto da Andrea Viti ex Karma e Afterhours, mette la firma per entrare a pieno titolo nel circuito indie italiano.

Rock e psichedelia, cantato sporco e attitudine punk contornata da suoni studiati a tavolino e cori impeccabili.

Il disco vanta 3 partecipazioni importanti: “Uragano” con Paolo Benvegnù, “New songs are no good” con Shawn Lee polistrumentista già collaboratore di Jeff Buckley, Amy Winehouse, Alicia Keys e Kylie Minogue ed infine la presenza di Alessandro “Pacho” Rossi nella bella rivisitazione di “Maggie M’Gill” brano degli storici Doors.

Il tutto suona come un enorme vortice scomposto e ricomposto per creare una trama indefinibile e inarrivabile.

I 5 veronesi Carlo Cappiotti, Francesco Cappiotti, Christian Meggiolaro, Simone Marchioretti e Philip Romano si arrichiscono di suoni di canzone in canzone culminando il tutto nella bellissima “Alaska”.

Un disco profondo, intenso e velato da quella tristezza nel nulla che avanza.

Un preciso istante, un balzo verso la luce e poi tutto si ferma nella parte scura della luna.

Flebologic – G.I.A.D.M. (God is a drum machine) – (El-Sop recording, Jestrai)

I bergamaschi ci danno di brutto con questo flipper impazzito e distorto tanto punk quanto new wave e territori affini.

Un’esplorazione continua di strabismo musicale non lineare che regala centimetri di sogni e prorompenti visioni di mondi paralleli.

Un concentrato di foglie da aspirare che non si divincolano tanto facilmente perchè tra le corde elettriche che suonano, il rumore che ne deriva è un misto della scena newyorkese e di Chicago targata ’70, ’80 che suona sporca e degradata, dove dalle viscere tutto nasce e si trasforma.

Queste nove canzoni sono un toccasana per le malattie del tempo, una flebo di liquido che ci porta alla convinzione che alcune canzoni sono state create e strutturate per far saltare anche chi si sente fermo immobile, per far saltare chi si sente stanco per sempre.

E allora: mordenti quanto basta per farti alzare i capelli  al cielo e gridare fino ad un nuovo giorno i Flebologic confezionano un album da ascoltare in un solo sorso da digerire in poco più di mezz’ora.

The heart and the void – Like a dancer (Autoproduzione)

Ci sono artisti che è sempre un piacere recensire perchè creano quella comunione con l’ascoltatore che, a dispetto del genere che possa piacere o meno, fanno dell’alchimia musicale una ragione di vita.

Questo moto perpetuo spesso accade con in cantautori e qui ci troviamo a varcare territori in bilico tra un primo Dylan e il più recente The Tallest Man on heart.

La voce del sardo Enrico Spanu convince perchè riesce a raccontare storie malinconiche e velate quasi inattese con arrangiamenti minimal, ma calibrati, dove l’acustica prende il sopravvento in tutti  e quattro i brani del mini ep.

“For the little while” parte con grancassa sostenuta a dare il tempo alla dolce zuccherata “The morning after”, “Empty house” porta appresso arrangiamenti ricchi di phatos mentre “When winter ends” è una canzone per l’inverno che deve finire.

Un album che  sprigiona vento come foglie di alberi che mutano al cambiare delle stagioni.

4 pezzi per il tempo quindi che ci attende, un svegliarsi improvviso accarezzati dal futuro: questo è The heart and the void.

Selfishadows – Step On (Factum Est)

Progetto alquanto originale quello che si propone la Jestai Records: creare un nuova, piccola etichetta che riesca a produrre band ancora meno commerciali della casa madre e dando un senso, necessario dico io, al disco in sè, valorizzandolo con tirature limitate di 60 copie ad uscita e avendo copertine disegnate a mano, stampate in serigrafia ed infine dipinte una ad una.

Perchè tuttimage0037-300x298o questo ci chiediamo? Per dare un senso ad una musica sempre più fruibile, per questo mordi e fuggi che non lascia il tempo di essere ascoltata e apprezzata.

La prima produzione di questa coraggiosa proposta è il disco di Selfishadows “Step on” che già da un primo ascolto si fa comprendere per il livello elevato di qualità e originalità.

In bilico tra atmosfere new wave e e ambient il progetto onemanband di Daniele Giustra è un rievocare continuo e ipnotico di concetti amalgamati da una struttura statica che evoca un continuo movimento, un fluire in divagazione di un lento vivere.

Un cantautore moderno quindi che si divincola dagli anni zero in maniera sublime e accompagnandoci in meraviglie sonore come in “Step On” on in “Hard”: sembra di ascoltare Bob Corn e Micah P Hinson in chiave elettronica.

“Memories” e “Time is near” sanciscono un finale emozionale da songwriter maturo e inaspettato.

Questo nuovo progetto di ampio respiro aggiunge una perla al panorama internazionale, dico io, perchè in qualche modo il tutto è ricondotto ad un filo di ricordi impreziosito da una proposta che va oltre i confini della nostra nazione.

Un grazie quindi anche a Factum est a Maria Teresa Regazzoni e a Marco Nicoli per aver creduto ancora che in Italia vince sempre e comunque la musica di qualità.

Scarlet’s Walk – Transparency (Mashhh! Records)

Echi echi echi grandi echi che risuonano tra boschi incontaminati e animali estinti, sentire i suoni della natura ed essere riempiti da vibranti riverberi condizionati solo dal fatto di essere ritmati quanto basta per fare ballare un’intera pista di giovani aitanti e acqua marina concentrata in pochi beat dal sapore leggero e  generoso.

Si perchè nel loro primo ep i Scarlet’s walk sanno sicuramente quello che vogliono e fanno della migliore disco dance il loro marchio di fabbrica.

Ripulita del tutto dall’inutilità artistica, se possiamo definirla tale, delle voci looppate del momento, questa musica creata per entrare in una prospettica trance è ricca quanto basta di sfumature che ti permettono di chiudere gli occhi e fuggire verso pianeti lontani.

Evocativa “Intrusion” e in stato di grazia la roboante “Flowers in my soul”, quasi di respiro trip hop  assaporando Air a tutto tondo in “Laws of art”, “Green Mind” è un tuffo all’indietro negli anni ’90, mentre le chiusure sono affidate ai remix di “Flowers in my soul” di Casa del Mirto e da Nicola Belli.

Un disco maturo e ricercato, sfumato in modo improvviso, questo del duo trentino, una piccola rosa preziosa bagnata dall’acqua che cade, un caldo pomeriggio impreziosito da una bianca cascata in mezzo a una natura beat incontaminata.