Fusch! – Mont Cc 9.0 Second Act (Jestrai Records)

Questi Fusch! sono un grido di liberazione che pavimenta energia di ascolto in ascolto,  attimo dopo attimo.

Li avevamo lasciati con lo sperimentale primo atto di una trilogia che raccolti i frutti delle premesse viene a macerare in questo naturale proseguimento un disco più maturo e più pensato.

La sperimentazione resta comunque in primo piano dove i suoni sperduti di una cascina in montagna regalano intrecci spaziali e progressive energie da incanalare in un unico pezzo.

Ecco allora che nasce l’idea del concept, un’idea di un qualcosa che non ha mai fine, un’idea unica, sperimentale, quasi accecante: entrare in un tunnel dai colori cupi, che non ha arrivo.

7 pezzi, che si devono anch’essi ascoltare senza premere pausa nel lettore, un’energia catalitica nata sotto il segno della psichedelia cosmica che affonda radici negli anni ’70 per poi raggruppare ciò che di meglio si può ascoltare nel Krautrock e in parte nei più moderni Low.

Refrain ossessivi e uso di synth mescolano cocktail in “Peso Piuma” e “Underground”, decadenza post-punk si legge in “Signore salga in auto”, “Stelle” fa quasi rima con Ferretti mentre la chiusura è affidata all’acustica “L’Ines”.

Piccole scintille di aria buona per i Fusch! in attesa del terzo atto perchè poi la curiosità sarà ancora tanta nel provare ad ascoltare l’intero lavoro, l’intera trilogia, senza interruzioni, entrando in un vortice di suoni che ammalia e riempie.

Emmanuele Gattuso – Plaything (Autoproduzione)

emanueleSolo 6 tracce per entrare in un mondo e non uscirne più, solo 6 i passi che accompagnano nell’inconscio e nelle terre inesplorate, solo 6 i brani che racchiudono un’energia segreta e misteriosa, potenza nascosta dietro a foglie di alberi plurisecolari.
Emmanuele Gattuso scardina la forma canzone per far parlar di se con un album strumentale e onirico, fatto di sintetizzatori e parole rigenerate in bilico tra il primo James Blake e il Kid A passando per Massive Attack su tutti.

Un incrocio di stili che già si pongono con accento meditativo nella traccia di apertura “Loser” accompagnata da rumori disturbanti e intrecci chitarristici a quietare animi pronti al sussulto quotidiano che ti fa capire quanto perdenti possiamo essere nella vita di tutti i giorni.

“Bist du auch in meinem Traum?” tradotta “Sei nel mio sogno” romba di colore invernale, calpestata da una batteria e un synth schizzato e cerebrale.

“Ocean” è pura bellezza sonora legata a mescolanze lunari, mentre la spiazzante “Plaything” sembra una ninna nanna robotica dove nulla è affidato al caso aprendo il campo a “Your Sunday” l’altro pezzo cantato del disco che incrocia Kings of Convenience a Jimmy Gnecco.

Nel finale l’aria si fa leggera con “Wire Field”: 6 minuti di pura catarsi.

Questo disco ha del magico perchè conquista per le atmosfere e le trame sonore eleganti ed essenziali, un quadro dipinto su di un tablet dove i colori sono bit sonori impressi su di una tela infinita.

ASCOLTA IL DISCO QUI

http://emmanuelegattuso.bandcamp.com/

Australasia – Vertebra (Immortal Frost Productions)

vertebraUna discesa nell’oscurità, poderosa cavalcata indefinita che porta il viaggiatore ad alzarsi verso porti immaginari e a spingersi verso mete ineluttabili.

Il rock strumentale prende forma con il progetto Australasia nel loro nuovo album “Vertebra”, una cura maniacale per suoni che vanno ben oltre il ristagnarsi di una melodia asfittica, anzi cedono il passo ad un susseguirsi di corse tra le nuvole dove a vincere è sempre la trovata geniale accompagnata da buon gusto per gli arrangiamenti e dalla magia lungo i dieci brani.

Quasi una colonna sonora claustrofobica dei nostri tempi che accompagna l’ascoltatore in un’immedesimazione totale con il tutto che lo circonda.

Poesia in catarsi la chiamerei, attimi di implosione come in “Aorta” pronti ad esplodere nelle trans elettriche di “Vostok” o nelle sferzate di “Zero”, per lasciar spazio all’ambient di giallo vestito di “Aura”, mentre le timbriche si alzano in “Volume” per poi rasserenarsi nella splendida title-track; “Apnea” è intermittenza ondeggiante per segnare il cammino, passando per “Deficit”, alla sublime e sensuale “Cinema”: ricordo di un tempo che non c’è più quando i baci si rubavano tra le sedie di legno e i titoli di coda erano colonna sonora per altrettanto tempo donato.

Un disco maturo e prezioso, quasi come i secondi che ogni giorno si consumano dietro a noi; ascoltare questi brani è viaggiare in un’altra dimensione, dove le parti del tutto si amalgamano creando un qualcosa di unico.

 

La nevicata dell’85 – Secolo (Fumaio Records – Dreamingorilla Records)

nevicataQuesti suoni che entrano come onde in un abisso si divincolano con gran stile e disinvoltura in un vortice di concatenazioni che interrompono melodie scontate per creare quello stato di grazia e malinconia degna di uno stile personale e immaginario.

Per far nascere “La nevicata dell’85” e in questo caso “Secolo” bisogna prendere un po’ di Massimo Volume e Offlaga, qualche cavalcata post rock alla Mars Volta e i suoni del verdeniano “Solo un grande sasso” e il gioco è fatto: un viaggio di introspezione claustrofobica a colmare segni di esagerazione composta e arpeggi silenziosi quasi commoventi che tramutano la luce in sera, il pensiero in abbandono.

I testi sono un concentrato di pensieri in dissolvenza, urla che squarciano e riposi meditativi, possibili mete da raggiungere in un vorticoso divenire.

Tutte le 8 tracce devono essere ascoltate in rigoroso stato di semi oscurità, perchè solo in questa fase si possono carpire le sfumature e l’origine di un album così ben suonato.

Un disco immacolato quindi che prende forza e vita dal turbamento quotidiano rischiando di diventare colonna sonora per l’inverno che verrà.

Se uscite attenti al ghiaccio.

Neko at stella – Neko at stella (Dischi Soviet Studio)

neko-at-stella-musica-streaming-neko-at-stellaUn misto di garage, stoner e new wave anni ’80 per questa band dal nome insolito che riserva lungo le 11 tracce delle sorprese a dir poco emozionanti.

Un principio di blues legato alla matrice più distorta per comporre urla dall’inferno più misterioso e cupo.

I toni si fanno bassi, a tratti laceranti delimitando un sogno di vita spezzato dal fulmine di una nuova
esistenza.

Un tuffo nel passato che si arpiona al presente con Jack White che si fa eco in numerosi pezzi, mentre Cure e Joy Division incalzano nelle tenebre dell’insieme.

Un disco quindi che riesce, nonostante la voluta timbrica, ad essere pop oltre maniera, oltre qualsiasi delimitazione di genere.

Marenduzzo della Dischi Soviet produce un progetto che ha quasi del celato già dal nome della band, un nome che varia di pari passo con i misteri nascosti lungo l’ascolto dei brani.

Grunge quindi e sporco blues, luce e oscurità, accento interposto tra comete invisibili,
questi sono Neko at Stella: buon ascolto non ve ne pentirete.

Ashram Equinox – Julie’s haircut (Woodworm, Santeria)

A un anno di distanza dal precedente ep gli emiliani Julie’s Haircut tornano alla grande firmando un disco di atmosfere metropolitane denso di significati e altrettante pretese che vengono soddisfatte lungo i 40 minuti in una sola e unica sinfonia d’autore.

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Una suite di post rock strumentale dove l’avant  viene mescolato all’Oldfield d’annata creando una trance di pura improvvisazione e ricerca sonora difficile da trovare, difficile da sentire oggi.

I 5 ragazzi entrano a far parte così di una schiera ricercata e amata per l’ambizione di donare al panorama musicale sempre qualcosa di nuovo e di vero.

I meandri tendono alla luce quando Ashram si impone vorticosa partecipando all’Elfman indiavolato di Tarazed; sentori orientali si ascoltano in Johin tra i fumi dei Narghilè e i tappetti sonori a ricoprire il tempo dilatato e oltremodo disperso, mentre Taarna è una cavalcata circoscritta al fulmine che verrà, al rullante in primo piano a preannunciare scariche elettroniche di synth in tremolo.

Equinox è puro ambient che preannuncia la semi Morning-Bell Sator e qui entra in gioco il piano che squarcia le profondità con bassi poderosi nel viaggio Floydiano di Taotie, a finire la speranzosa Han.

Un disco fatto di immagini suggestive, di racconti che vanno oltre il definito, un viaggio di ricerca continua e mutevole capacità di esprimere energia composta e psichedelica maestria.

Kalweit and the Spokes – Mulch (Irma Records)

kalKalweit è tornata assieme agli amati Spokes.

Una voce ammaliante e quasi imprevedibile dove il cantautorato più raffinato si mescola ad intrecci di elettronica meravigliata da sali e scendi di tastiere in refrain che si permettono il lusso, stilisticamente parlando, di creare ambiziosi intrecci di synth e percussioni suggestive che si perdono in lontananza per poi entrare inesorabilmente come sveglia del mattino.

Atmosfere quindi oniriche, chitarre e lievi sussurri alla Kings of Convenience supportati dal ritmo delle 6 corde in roll and rock e preferendo piccoli interventi a momenti suonati allo stremo.

Un disco che rimanda al passato, il sapore vintage di questa piccola opera traspira a dismisura negli anfratti e nei solchi di questo laser cd, mentre come un lento carillon il tempo si scaglia con respiri a polmoni aperti.

Presenze in questo disco di un certo livello come Gnu Quartet in Fifth Daughter la fanno da padrone per impreziosire maggiormente la qualità totale dell’album.

12 pezzi che strizzano l’occhio a Velvet Underground e Radiohead, Cure e Jeff Beck.

Meraviglie sonore le possiamo toccare con mano in tracce come Kate and Joan o nella leggiadra Appliances, No need ricorda Placebo e Corgan classe 1979 mentre la pre – chiusura è affidata in Wetutanka con il clarinetto di Nicola Masciullo e il violino di Eloisa Manera.

Un album per tutte le stagioni che racchiude in un cuore di metallo una piccola fiammella che riscalda anche i cuori più gelidi, regalando attimi di luce prima del buio.

Edoardo Cremonese – Siamo il remix dei nostri genitori (Dischi Soviet Studio)

Edo cioè Edoardo Cremonese al secondo disco diventa il nostro Rino Gaetano.

edoardo-cremonese-musica-siamo-il-remix-dei-nostri-genitoriTesti leggeri, ma non troppo, carichi di quell’ironia elegante che si fa strada giustamente tra le numerose copiature celebrate in questi anni del cantautore folk stralunato del momento, insomma da Dente in su…

Con questo disco il pensiero è concentrato immensamente su tavolozze di colori leggeri ma pieni di ritmo, un distillato di energia convogliata in refrain enigmatici e ripetuti, facili ritornelli che entrano lasciando tracce comprensibili da tutti, senza chiedersi nulla di più, senza voler celare dentro ai testi chissà che significati reconditi e criptici.

Il disco vede la presenza di numerosi ospiti che regalano camei inaspettati come Lodo Guenzi de Lo stato sociale, Nicolò Carnesi e Alberto Pernazza degli Ex – Otago.

Capolavoro sonoro e ballabile la title track “Siamo il remix dei nostri giorni” dove il bisogno di una vacanza è simbolo di una gioventù stanca che vive degli errori fatti dai genitori.

“Super-Noi” invece è arpeggio immancabile, partenza pacata per aprirsi in “Neffa” sotto al sole con Charlie Brown e Company a far delle giornate una questione di vita.

Pezzo assai divertente è “Samuele” canzone di sogni infranti e promesse mancate, mentre “Bello come quando” racchiude la tristezza dell’uomo  medio ingabbiato in un’ auto parcheggiata sotto la pioggia.

“A Milano col trattore” per portare un sorriso ad una città che non ride mai si aggiunge la finale “Sant’Antonio” la più diretta sicuramente nelle intenzioni.

Edoardo Cremonese confeziona un disco pulito e di sostanza dove la materia prima viene utilizzata per far nascere sorrisi infiniti sulle bocche di ascolta.

Un gran gesto di continuità con il passato che fa del cantautore un portatore sano di satira e capacità di ingegno sempre nuove su cui contare per i giorni a venire.

 

PineAppleMan – PineAppleMan (Autoproduzione) a cura di Virginia Bisconti

Nove minuti e cinque secondi. Come non rimpiangere il silenzio.

ListenerSpesso, sempre più spesso oggi, desideriamo il silenzio.

Ogni giorno siamo torturati da milioni di suoni, note, rumori, baccani e frastuoni, che prepotenti cercano di ritagliarsi un posto ingombrante, auto-eleggendosi a colonna sonora delle nostre vite. La musica ci segue ovunque: dalla radio-sveglia la mattina, nei super mercati mentre riempiamo i carrelli, al telefono mentre –disperati- cerchiamo di risolvere questo o quel problema con il nostro operatore telefonico. Insomma, diciamocelo: agogniamo il silenzio e ne abbiamo talmente bisogno da immaginarlo come un’oasi in pieno Sahara.  Di questo potremmo dirci tutti più che convinti, no?

Eppure, prima o poi, ti capita di imbatterti nella sistematica smentita: per me è stato l’EP di PineAppleMan. Tre tracce, nove minuti e cinque secondi, che valgono più di qualsiasi oasi, che se immagini una colonna sonora non può che essere quella. Tre pezzi che non ti seguono, ma si fanno inseguire, a cui fai posto volentieri e che ti lasciano con il labbro superiore arricciato in un sorriso.

I suoni soft, velatamente pop e con una forte influenza folk, ed il cantato in inglese sono retti da una armonia ben congegnata, che solo l’inconfondibile impronta indie può coordinare: il risultato sono tre pezzi accattivanti  e fuori dal comune.

Il primo, Love in Japan, è un crescendo di note che si accarezzano le une sulle altre, e accompagnano abilmente la voce del cantante, ricordando una ballata solenne. Il pezzo si apre in totale silenzio, con una domanda per certi versi retorica: “Where is your love”. L’atmosfera è poi smorzata da una malinconica viola, che pone l’accento e detta un ritmo che ben si sposa alla chitarra, conducendoci dolcemente attraverso la nostalgica melodia ad una risposta netta e assoluta. La domanda inziale è, infatti, parte del refrain, che involvendosi in se stesso, sembra abbandonare la risposta alle nostre mani: “On the island of Japan”. 

 Il secondo pezzo, PineAppleMan, vanta un ritmo incalzante e vitale, solare, come una sferzata d’aria fresca, di quelle che inaspettatamente spalancano le finestre e lasciano entrare la luce, le novità ed i cambiamenti. Il tema portante, suggerito dal sound compatto, è proprio quello della rinascita. Il folk qui la fa da padrona e senza esitare accompagna le parole, dando loro significati che non immaginavamo potessero avere. L’enfasi del pezzo sboccia grazie alla viola in sottofondo che a tratti sembra ovattare l’intero ritmo, ma che in realtà suggerisce l’evoluzione ed il cambiamento, sancendo così che “A rebirth with a new name”.

 Infine l’ultima traccia: Extraordinary World. A mio parere il “dulcis in fundo” che non può mai mancare. Si tratta di uno di quei pezzi che riascolteresti all’infinito, senza mai stancartene, perché ad ogni nuovo ascolto cogli qualcosa di diverso, di nuovo. Un inno alla bellezza, non necessariamente quella canonica, ma piuttosto quella che ci circonda ogni giorno, e che passa inosservata. La melodia malinconica ci suggerisce paesaggi acquarellati e pomeriggi piovosi. Il piano accompagna tutto il pezzo, creando quasi una relazione simbiotica con la voce che sembra a tratti essere un sussurro.

Virginia Bisconti.

Les Fleurs Des Maladives – Medioevo (ZetaFactory) Super Anteprima!!!

Un disco di puro stoner rock che fa saltare dalla sedia anche il più profano del genere.

Medioevo uscirà il 12 Novembre, ma noi di IndiePerCui abbiamo deciso di recensire l’album in anteprima.

les-fleurs-des-maladives-musica-medioevoIl trio lombardo è una realtà fresca e orientata ad un rock granitico caratterizzato da passaggi-assaggi di pura poesia emozionale.

Si perché al fragore elettrico è associato un convincimento di liriche che va oltre la media ascoltata nell’ultimo periodo.

I tre sono un misto tra Elettrofandango e Teatro degli Orrori con occhi oltreoceanici rivolti ad Alice in chains e Audioslave.

Il suono che ne esce è potente e deciso: una tempesta perfetta che si scaglia con violenza e precisione all’interno di ogni cuore che ascolta.

Le canzoni più incisive sono “Medioevo” a cui è accompagnato un significativo video uscito in questi giorni, “Novembre” invece è canzone scelta da Nada per essere cantata nel suo “Live stazione birra”, poi la scaletta si fa sempre più viva con “L’alchimista” passando per “La bellezza” spartiacque perfetta che apre letteralmente le menti e lascia con un amaro in bocca indescrivibile.

“Ennio” è apertura spasmodica all’indefinito in una strumentale che ci porta a “Dharmasala” canzone di protesta che comprende piccole suite di sperimentazioni ingegnose.

In conclusione la ballata leggera e decadente “21 grammi di cenere” con tanto di arcobaleniana ghost track acustica nel finale.

Un disco che appassiona fin dal primo ascolto, sarà un po’ per i suoni curati, i testi ricercati e la voce gridata, ma pulita che “Les fleurs des maladives” donano e fanno trasparire da tutti i brani una passione sviscerale per il cambiamento, un percorso che crea alternative  possibili dove ognuno è libero di fare le proprie scelte con consapevolezza scavalcando ogni barriera esistenziale, unico vincolo per un’Italia da cambiare.