Il futuro della musica italiana? Un sorso di Soda Caustica a cura di Virginia Bisconti

“La musica è morta.”

soda causticaCosì Boulez disse, nei bei tempi andati, riferendosi nello specifico alle composizioni di Arnold Schoenberg ed alla sua musica seriale. Il buon Pierre Boulez ignorava quel che poi sarebbe accaduto alla sua favorita tra le nove muse. Oggi, probabilmente, Euterpe (dal greco: colei che rallegra) avrebbe poco da star contenta.

In suo nome sfilano siparietti di “amici di donne platinate”, di individui che esibendosi mostrano un incognito fattore “X” e persino i concorrenti del coro dell’Antoniano, solo con meno grazia e forse più glorie. Ogni giorno quella grande invenzione del 1954 ci regala momenti di straordinario (dis)agio, propinandoci cantautori in falsa riga e animali da palcoscenico.

Ci hanno raccontato della crisi economica, ce ne hanno parlato talmente tanto che persino le favole dei bimbi son cambiate. La mamma di Cappuccetto Rosso non la mette più in guardia dal lupo cattivo, ma dal viscido spread e dal titanico debito pubblico; Biancaneve ha ricevuto ordine dai nanetti di non aprire agli agenti di borsa, e persino Hansel e Gretel hanno deciso di abbandonare la casa di Marzapane per dirigersi verso i paradisi fiscali. Ma della crisi culturale, non ci ha detto mai niente nessuno. Eppure la si coglie, la si annusa in ogni dove, come puzza di cane bagnato.

Neanche la musica sembra essere stata risparmiata da questi umori generali, tanto che, ad oggi, si arriva a parlare di una delle forme artistiche per eccellenza come di una fabbrica vera e propria: l’industria musicale, che sforna talenti e sostiene capacità canore. Il music business italiano ormai, in perfetto allineamento aziendale, ha ben delineato la propria strategia vincente. Relega tutto all’audience, forse perché ha capito che il migliore talent scouter è proprio il consumatore finale del prodotto. D’altronde chi può rispondere alla domanda “che cosa comprerebbero gli spettatori?” se non loro stessi, chi conosce il gusto del pubblico se non il pubblico stesso? Va da sé che il televoto facilita di molto le cose.

Eppure non si ferma tutto qui, e per fortuna. C’è ancora chi, a dispetto di tutto, alza la testa per scuoterla e differenziarsi dalla massa informe dello studio televisivo. Non a caso pressoché tutte le giovani band hanno cominciato a rivolgersi a canali di distribuzione diversi, diffidando d’affidarsi a note case discografiche, e scegliendo mezzi più amatoriali. La logica c’è tutta: se è vero che in definitiva è il pubblico a decidere, allora perché non rivolgersi direttamente agli spettatori, senza zavorre d’intermediazione?

Molti, sfruttando le potenzialità del web, hanno attivato il proprio canale su Youtube, affidandosi al numero delle visualizzazioni, nella speranza di far fortuna e magari, chissà, venir contattati e realizzare il proprio sogno.

Ma ancora una volta c’è una soglia di sbarramento, insormontabile, se non si hanno le carte giuste. Per far breccia e portare a casa il risultato occorre un poker d’assi: dedizione, emozione, determinazione e soprattutto talento. Non è sempre facile, e son più le volte che il banco vince, che quelle che arrivi una buona mano. Però, a volte, succede, e vien da pensare che la fortuna abbia poco a che fare con tutto questo.

I Soda Caustica, nascono un po’ per gioco: sei ragazzi di Bologna, una passione in comune, e la voglia di condividerla, di far apprezzare la loro idea di musica. Il nome, insolito e “corrosivo”, nasce prima ancora della band, in un’estate passata al mare, tra amici. Gli stessi che si ritrovano, a distanza di tempo, a volersi dare una possibilità, a mettersi in gioco e a dirsi: “Perché no?”.

È così che nasce la band: Roberto, Lorenzo, Luca, Simone, Davide e Matteo, con i loro suoni “brucianti” e i loro testi che celano messaggi più ampi. Oggi l’effervescenza dei Soda Caustica ha raggiunto anche il capoluogo meneghino, dove la band sta incidendo il primo EP.

Le loro canzoni sono il frutto della sintonia, dell’unione d’intenti che mira ad un obiettivo solo: poter raccontare il proprio punto di vista, dar voce alle loro prospettive. Infatti attraverso la loro musica fresh, orecchiabile e dai suoni accattivanti, i Soda Caustica raccontano temi più impegnati, si armano di testi dalle tinte forti: l’unione, la separazione, la felicità con le sue sfumature, la giovinezza e l’importanza di vivere “fino in fondo”. La voce è di Roberto, una delle due chitarre ed i testi sono di Luca, l’altra chitarra è di Matteo, le tastiere di Simone, la batteria di Lorenzo ed il basso di Davide: ma l’alchimia è unica, come se l’esito finale fosse figlio di una stessa madre, e senza il contributo di ognuno, di certo, non si arriverebbe allo stesso risultato.

Risultato che potrete apprezzare con un semplicissimo “click”:

 https://www.facebook.com/SodaCausticaofficial

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V: Quali sono le vostre influenze e a quali artisti vi ispirate?

 SC: Le influenze sono tante, e soprattutto straniere. i Coldplay dei primi album, con la loro “anima british”, ma anche gli U2, i Radiohead, gli Stereophonics. La nostra musica si avvicina a quella di queste band, rispecchiandone i suoni graffianti e crunch. Tra gli artisti nazionali ce ne sono pochi ai quali ci ispiriamo: Vasco, per i testi, ad esempio, ed i Negramaro per la musicalità.

V: Ogni album è sicuramente un’esperienza unica per una band. Com’è ci si sente ad incidere il primo EP?

SC: Senza dubbio è una grande soddisfazione. Per la prima volta ci si mette in gioco, ci si ritrova in uno studio di registrazione con la consapevolezza di avere un’unica possibilità. C’è tanta aspettativa, anche, perché sappiamo che l’EP rimarrà immutato una volta inciso, che ogni esecuzione è irripetibile. Ovviamente è un sogno che si avvera, poter dire di aver creato qualcosa dal nulla, e comunque vada ne conserveremo un ottimo ricordo.

V: Secondo voi all’interno del settore dello spettacolo dal vivo, in Italia, c’è spazio per i giovani? E quali sono le reali possibilità d’emergere per chi fa musica, oggi?

SC: Le possibilità sono poche e spesso per emergere si può solo far leva sui contatti, sperando che ci sia qualcuno che creda nel tuo potenziale. L’impegno e la dedizione sono fondamentali, ma anche la fortuna gioca un ruolo di tutto rispetto. È pur vero che oggi si hanno mezzi più efficaci: attivare un proprio canale su YouTube e caricare delle cover di pezzi in voga può aumentare le “visualizzazioni”. E chissà, magari chi ascolta la cover, poi va ad ascoltare anche gli inediti.

V: Credete che le case discografiche siano in grado di riconoscere ed investire sul “cavallo vincente”?

SC: Le case discografiche sono specializzate nel riconoscere un cavallo vincente. Il problema è che non sempre si tratta di un “cavallo di razza”. Anzi al contrario, sembrano i cantanti “usa e getta” ad andar per la maggiore. Forse perché investire sugli esordienti, non da’ la sicurezza dei profitti, e piuttosto che cercare di far crescere l’artista nella giusta direzione, si preferiscono “prodotti sicuri”, che garantiscano un ritorno. Capita sempre più spesso che le case discografiche si focalizzino sul breve termine, senza investire su un cavallo che non è di razza, ma che può diventarlo.

V: Cosa ne pensate delle autoproduzioni da parte delle band emergenti?

SC: Non possiamo che pensarne bene. Riteniamo che le autoproduzioni lascino più autonomia, più spazio agli artisti. Non avere filtri consente di venir fuori per come vuoi essere percepito, ci si può esprimere al massimo e decidere come si vuol essere rappresentati. L’autoproduzione ti spinge a lanciare una pietra senza fare necessariamente un buco nell’acqua, e ti aiuta invece a creare dei cerchi sulla superficie. Perché l’autogestione è senz’altro un ottimo mezzo per crescere e migliorarsi, partire anche degli errori e trasformarli in qualcosa di migliore, di buono. Ovviamente ci sono dei lati negativi: si hanno meno garanzie, e bisogna mettersi molto più in gioco. Ma ne vale la pena se questo significa poter dire di avercela fatta da soli.

V: Cosa ritenete d’aver portato a casa, dopo quest’esperienza, e su cosa ancora credete di dover lavorare? (questa è cattivella, lo so)

SC: Portiamo a casa tante soddisfazioni, nuove consapevolezze sulle nostre capacità, un’esperienza che ci ha spinto a dare il massimo e a crederci, l’emozione di iniziare in una sala prove e di ritrovarsi invece a registrare. In più quest’occasione ci ha anche mostrato su cosa dobbiamo ancora insistere e lavorare. Dovremmo essere più tenaci e essere pronti alla scalata, perché più si sale più si migliora, e non bisogna accontentarsi, anzi siamo consapevoli che si può sempre far meglio. Non per questo però non dobbiamo puntare in alto, perché solo così almeno potremo dire di averci provato.

 

Secondo appartamento – Secondo Appartamento (Asino dischi)

Prendi una stanza piccola molto piccola, una piccola cameretta dove raccogliere sul pavimento fogli in disordine magari con qualche linea o scarabocchio ad intendere che qualcuno li è vissuto, lì ha speso il suo tempo prezioso, raccontando di se, di personaggi strani e rocambolesche figure che riempiono i vuoti, riempiono le pareti e le mensole fanciullesche non più di poster e macchinine, ma di vissuti, di maturità e di occasioni perse e traguardi raggiunti.

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“Il secondo appartamento” è tutto questo, puoi ascoltarli all’infinito e farti cullare tra sogni disincantati e limpide visioni di un tempo che non c’è più.

Questo album, il loro primo album, uscirà a breve e noi abbiamo avuto la fortuna di conoscerli maggiormente dopo un ascolto attento e preciso.

Il loro genere si può definire un indie folk pop con tanto di violino virtuoso che condisce gli spazi bianchi tra vibrazioni e battiti sincopati di esistenze e vite.

Ci sono echi di”Of monsters and man” e degli “Iron Wine”, piacevole inoltre lo scambio di voci maschile e femminile in pezzi come”Bambù”.

Altri pezzi degni di nota sono la stupenda “Valentina” e la preziosa “Un fiore ed un pugnale”, piccole caramelle da assaporare lentamente.

Una ventata di aria fresca in un disco che prende al primo ascolto, lasciando dietro di noi tanta buona malinconia suonata e cantata in modo magistrale il tutto condensato da testi rilassati e talvolta pungenti: passare l’autunno con questa musica nelle orecchie sarà come essere distesi su di una spiaggia mentre nevica, senza però, sentire il freddo.

Galleria Margò – Giro di vite (Rocketman Records)

Un album sicuramente per il nostro tempo, questo del quartetto “Galleria Margò”, che si muove geograficamente tra Milano, BolGalleria-Margò-Fuori-Tuttoogna e Varese.

Un disco di debutto fatto i ironia e cantautorato che si mescola al folk e al rock passando delicatamente alla forma-canzone più espressiva e ricca di sfumature e similitudini con il grande passato.

Una prova che rimane personalissima, soprattutto in pezzi come “Giro di vite” e “Paga tu” a sancire doppi sensi che polemizzano in modo discreto sulla situazione attuale della vita.

Una voce asciutta e carica di fendenti quindi, che coadiuvata da una base ritmica sempre precisa, regala a chi ascolta il gusto di sentirsi in un veloce giro di giostra che non ha mai fine.

In questo disco si assaporano i colori di una passeggiata nel verde interrotta dalla spazzatura scaricata lungo i fiumi, si perchè la “Galleria Margò” sa cosa vuole colpire e lo fa in modo elegante e disincantato.

In poco tempo ci accorgiamo di essere spettatori quotidiani di un mondo che non è nostro.

 

Les enfants – Persi nella notte (Via Audio Records)

Oggi 20 Settembre 2013 i “Les enfants” presentano il loro disco all’ “ARCI Biko”.

Per ironia della sorte, senza saperlo, io mi sono messo a scrivere di loro, un album preso a caso tra le decine che sono lì in attesa di essere recensiti.

Dalla prima nota morbidlesenfantsa e avvolgente il disco mi è piaciuto, sono quei pezzi che creano con l’ascoltatore qualcosa di unico e magico e rendono necessario un continuo ascolto per entrare nell’immaginario di questi 4 giovani milanesi che sembrano vivere in una piccola casa su di un alto albero avvolti da nuvole e turbinii leggeri e autunnali.

5 canzoni, tra cui una strumentale, una voce particolarissima che mescola il miglior Finardi ad atmosfere più cupe e nascoste.

L’ep apre con “Milano” dirompente quanto basta per distruggere argini di vita racchiusa in condomini monotoni e uniformi.

“Dammi un nome” è pura poesia per quadri leggeri appesi in aria da fili immaginari.

“Cash” raccoglie atmosfere più eteree e sognanti accompagnate da vibrafoni e melodie orientali.

Chiude bene la speranzosa “Prendi tempo”.

Un disco che sicuramente vuole essere ascoltato, uno stile che sta prendendo una precisa direzione e spazialità, un album da rincorrere giorno dopo giorno, voce dopo  voce, per un respiro che può abbracciare la solitudine metropolitana.

 

 

 

Rev Rev Rev – Rev Rev Rev (Autoproduzione)

Suoni fluttuanti e distorti, immateriale concezione di una buia giovinezza che si esalta nelle chitarre esasperate e nelle liriche sottomarine che in qualche modo creano una tangibile continuità tra lrev_rev_rev_-_copertinae onde di un oceano indefinito.

I Rev Rev Rev , gruppo presente da qualche anno nella scena psyco-rock, si stabilisce per originalità e sensazioni indiscutibilmente tra i primi posti di genere.

Il quartetto modenese è ispirato da un Lynch stralunato e perseverante che trova spazi e forma in pezzi come la spettrale apertura “Ps_Cube” e nella martellante “Blue on red”.

Alla voce una Dolores O’Riordan più cupa e carica di echi cimiteriali da brividi.

Un disco che suona come una lunga ballata noise che ricalca stilisticamente un cammino fatto di soddisfazioni e ottime intenzioni, non ci resta che fare un applauso ai Rev Rev Rev perchè giovane realtà ricca di sostanza.

JoyCut – PiecesOfUsWereLeftOnThe Ground_ (Pillow Case Records, Irma Records)

Per noi di IndiePerCui un album indispensabile.

Abituati come siamoAdobe Photoshop PDF a parole senza sostanza, magari troppo gridate per contornare note sparse nel mondo che non ci appartiene, ci lasciamo trasportare da esotiche cavalcate di puro lirismo elettrico senza mezze misure.

Con questo album i Joy Cut si amano o si odiano.

Un salto in avanti di decine d’anni per suoni ricercati e manipolati fino a convogliare in momenti di catarsi post-tramonto che incediano in defrag le ultime ambizioni di un essere umano stanco delle parole arrotolate come sigarette bruciate e gettate per terra.

I colori si mescolano al nero, le tinte di rosa indicano segnali dal futuro e solo un completo ascolto ti riporta al clamore del viaggio nascosto tra distese di stelle.

Un album incomparabile e inclassificabile, se poi il classificare rende meglio l’idea, ascoltare i nuovi Joy Cut è come cucirti addosso un completo di seta pianistica mescolata al post più geniale e creativo.

3 gli atti, un enorme rappresentazione teatrale, incrociatori di Editors e Mars Volta, una voce che si fa strada fino all’ultimo respiro in Funeral: colonna sonora per un maestoso film dal sapore dolceamaro.

Un itinerario segnato questo PiecesOfUsWereLeftOnThe Ground_, dove intrecci narrativi si sciolgono in visioni oniriche di viaggi ultratterreni e dove la parola suono acquista sempre più valore.