Le Laite – L’estate è già un ricordo (Autoproduzione)

“L’estate è già un ricordo” prima fatica del cantautore asiaghese Paolo Silvagni è un album di colori tenui che suona come un disco malinconico del passato.

Tutto porta alla nole laitestalgia, un viaggio sull’altipiano, tra silenzio e neve, canti di animali e versi quasi sussurrati a ricordare in modo fine e delicato il concetto del tempo che sfiora barriere immaginarie fino a contorcersi attorno ad alberi secolari immobili.

Il disco “home made” prodotto, si identifica nel vortice dei cantautori anni zero, dove parole e musica sono legate dal filo dell’accordo chitarristico scarno, ma ricco di pathos, essenziale e allo stesso tempo controllato da arrangiamenti vocali.

Il tutto somiglia a un Vasco Brondi, che al posto di trovarsi nel grigiore di città abbandonate allo scorrere dei giorni si incammina su sentieri freddi e desolati in cui solo la natura può essere fedele amica degli anni che verranno.

Canzoni come “Coperte” o il singolo “Tre lune” sono l’esempio di questo concetto, mentre pezzi come “A metà” o “Un’altra Irene” raccontano senza mezze misure un male costante di vivere.

Buona prova quindi quella del nuovo cantautore, confidando in un prossimo disco leggermente più suonato, abbandonando la formula: diario di pensieri, per lasciare spazio a un disco in cui musica e parole riescano  ad amalgamarsi in modo più incisivo.

GTO – Little Italy (Music Force)

Prendi un aereo e vola sopra le palme di un deserto d’acqua dolce.

Prendi un gruppo che gto-club-musica-little-italynella realtà regionale e non solo, ha fatto storia con un genere tante volte valutato solo sul campo dell’intrattenimento da balera estiva, che riparte invece da testi impegnati e sonorità altrettanto ricercate con suoni che strizzano l’occhio all’elettronica ambient e che in certi passaggi ricorda un’ottima commistione tra De Andrè e Bandabardò, tra De Gregori e Cisco.

Questi sono i GTO, band storica umbra all’attivo dal lontano 1993, che ha fatto del folk rock un’esigenza di vita.

“Little Italy” è un album quasi ironico, anche se c’è poco da ridere, sulla nostra Italia delle parole al vento e dei sorrisi troppo facili; un’Italia legata ai favoritismi e alla furbizia:  esempio neoclassico di democrazia decadente e di facciata.

In copertina il gallo canta, qualcosa muore: il nostro Paese.

A posticipare il canto ecco la prima canzone “Barabba”, tra le più riuscite del disco, contornate da atmosfere sognanti e di libertà.

Altro pezzo degno di nota  lo troviamo nella title track “Little Italy” e nella successiva “La via del mare” tra visioni di spiagge infinite e amori lontani.

“Granelli di sabbia” si apre al rock flangerato, mentre la chiusura in “Festa popolare” è biografia di un momento.

Un album di 11 pezzi suonati a meraviglia dove l’esperienza segna una traccia netta rispetto ad altre simili proposte sul territorio nazionale.

I “GTO” sono riusciti nell’impresa di creare un disco che faccia ballare e allo stesso tempo pensare: credete non è cosa da poco.

 

Family Portrait – Lontano (Autoproduzione)

Questo è un disco magico.

Una cofamily portrait_lontano_ copertinammistione di suoni elettronici e suoni classici che prende al cuore di chi ascolta regalando emozioni sintetizzate e lasciando spazi a profumi di elettricità metropolitana condita da basi ritmiche sostenute e cori mozzafiato.

Il nuovo disco dei “Family Portrait” è una mescolanza di tutto ciò, un regalo inaspettato che il trio di Macerata scaglia tutto d’un fiato per raggiungere un’altezza infinita di rumori e suoni filtrati magistralmente.

Il gruppo si avvale in questa ultima fatica di strumentisti classici che prendono il sopravvento in canzoni come la bellissima “Tracce” o la commovente e leggera “Saturno”.

Il resto sono sintetizzatori e batterie in loop, organi e pianoforti deflagrati da una voce che ricorda la migliore Meg dei tempi andati.

Suoni che abbracciano sostanza, gatti – umani che rincorrono topi – umani, l’assenza colmata da un circuito elettronico scelto all’orizzonte mai per caso.

Un disco totalmente ben suonato e posso dire tra le più belle novità di quest’anno.

 

Mad Chickens – Kill Hermit (LadyMusicRecords)

E’ un suono sviscerale e allo stesso tempo è pura psichedelia, senza mezzi termini e mezzi misure.

Le 12 tracce che compomad chickensngono l’album delle Mad Chickens “Kill Hermit” è un concentrato di suoni lisergici e distorti in cui  la parola rumore è sinonimo di grazia pensata per un fine comune.

Le quattro (mi scuso per Nicola, ma la maggioranza è donna) manipolano suoni fino a raggiungere riverberi lunghissimi e delay incrociati da controcanti e seconde voci lasciando l’ascoltatore a bocca aperta in cavalcate senza fine e apparentemente senza una strada da seguire.

Invece dopo un secondo ascolto tutto appare più chiaro, gli spiriti affini a questa band: vedi sotto la voce Verdena, Nirvana, Marlene Kuntz, il post grunge e i suoni più acidi ’70, si incontrano per una riunione sul futuro della musica.

La sentenza riassunta la troviamo nella traccia d’apertura “Kill Hermit/Gun in my head” e in pezzi come Fell in love, Bed Never bed e The tin Man.

Un disco che nel suo apprendere dal passato regala emozioni da conservare per gli che verranno. Complimenti!

Daushasha – Canzoni dal fosso (Officine Underground)

I Daushasha sono contagiosi, sono come una giornata di sole in cui non sai se andare al mare o in montagna, prendere il necessario e fuggire su vespe colorate per seguire l’istinto che ti porterà verso mete insolite.

Il loro è un ritmo daushashasostenuto da strumenti tipicamente folk dove la base ritmica è una sorta di ipnotica trance che ti fa alzare il piede, un’unica esigenza che si identifica col sapore della campagna, il fieno tagliato e una corsa a perdifiato lungo prati infiniti.

Come non citare nella loro musica formazioni quali MCR, Bandabardò e la canzone d’autore targata ’60 italiana senza dimenticare influenze alla Gogol Bordello in primis.

Un folk rock combattuto legato alla tradizione e ai ricordi dove a vincere sono le storie quotidiane di ognuno di noi.

La lista dei musicisti non è trascurabile: Lorenza Bano al violino, Giorgia Bonetto alla fisarmonica e Serena Marazzato alla chitarra e alla voce, mentre alla voce maschile troviamo Federico Pavanetto, Francesco Casagrande alla chitarra, Daniele Licini alla batteria e Simone Mattiello al basso.

7 padovani in cerca d’autore o meglio 7 giovani ragazzi che sono riusciti a trarre il meglio dalla musica d’impegno italiana per trasformarla in una danza senza fine.

Fabio Biale – La sostenibile essenza della leggera (Prestige Recording)

Il polistrumentista Fabio Biale concentra un’espressività fuori dal coro con questo disco in cui note elettrizzanti denudano un animo attentobiale alla prosa e all’assonanza di pensieri.

Già premio Tenco 2012 con gli “Zibba & Almalibre” da filosofo solitario, il savonese, incrocia carovane di nomadi con il cantautorato più intimista e riflessivo capace di aprire voragini di bellezza ad ogni ascolto.

“La sostenibile essenza della leggera” è un disco di musica quasi etno – europea in cui chitarre acustiche si mescolano a blues di violini impreziosendo il tutto da fiati scoppiettanti e da “requiem” solenni.

Le 10 tracce risultano essere molto orecchiabili non scadendo mai nella banalità.

Perle le possiamo ascoltare in pezzi come “Gesti” ricordando “Marta sui Tubi” e “Med in Itali”.

“Canzone d’amore per un nonno addormentato” è visione nuda di corpo allo specchio e solitudine che impreziosisce le giornate di leggero sole.

Altro pezzo degno di nota è “Psycho Killer”, una vorticosa salita verso il più classic rock d’annata.

Menzione speciale per la canzone “A zonzo” che scanzonatamente ricorda l’azzurro del Celentano più famoso.

Un disco ben suonato e curato dove il cantautore, privo di una band vera e propria si cimenta nel percorso ostico del debutto in solitaria dando forma a un qualcosa di concretamente importante. Promosso.

The child of a creek – The earth cries blood (Seahorse recordings)

Rapiti dalla fantasia di un folk singer visionario ci accingiamo a recensire l’ultima fatica di “The child of a creek” intitolata “The earth cries blood”, quasi un concthe-child-of-a-creek_the-earth-cries-blood_1367498603ept album evocativo in cui lasciarsi andare a costanti echi e riverberi di terre lontane e dove la simpatia per gli anni ’70 è evidenziata dall’approccio prog e ricercato nei suoni e nei colori che l’album riesce ad evocare.

Il disco è composto da 11 canzoni ben strutturate, ma imprevedibili, dove anche la singola sfumatura è pensata per emozionare e lasciar posto ad un incedere vagamente Barrettiano in cui assoli elettrici psichedelici si intrecciano marcatamente a digressioni tastieristiche di archi sintetizzati e gocce di suoni a piovere dal cielo.

Il toscano Lorenzo Bracaloni nel suo quinto album in studio riscopre la passione per l’arte concettuale, l’ascetismo quasi profetico e un uso, il più disparato, ma magistrale, di strumenti digitali e fiati elettrizzati.

Questo giovane uomo esalta con coraggio la solitudine nascosta, una passeggiata su di un colle alla ricerca di se stesso e ogni incedere di passo riconduce a frammenti di memoria persa nel tempo, la quale solo attraverso parole come  abbandono e malinconia, riesce a dare un senso alla propria vita.

I pezzi rispecchiano appieno questo viaggio ultraterreno e gli attimi di riflessione sono costituiti da vere e proprie scariche sonore che toccano l’apice in pezzi quali “Morning comes” e “Terrestre”.

Un cantautore che ha scelto la propria via sofisticata, ma che in chiave live è in grado di creare bucoliche atmosfere utilizzando la sola voce e la sola chitarra, quest’ultime capaci di mantenere quell’equilibrio nel pensiero e nell’animo, accompagnandolo verso lo scorrere leggero dei giorni che verranno. Rapiti.

 

Le strade – Le strade (Autoproduzione)

Istinto primario che si attacca al suolo per prendere la terra e gettarla in aria a gran voce strutturando parole come spari che legano il vuoto attorno al mondo.

Andare in fuga verso il confine per non  sbagliare ancora, per trovare vie d’uscita dentro stanze senza porte, dentro territori racchiusi da confini naturali che non lascle-strade-musica-le-strade-epiano respirare.

Voci e ombre, sussurri nell’oscurità e pistole puntate per aver preteso di essere migliori in un Paese dove pochi lo sono o lo possono essere.

Le strade colpiscono per impegno sociale, impatto sonoro e per quella genuinità rivoltosa che fa saltare anche il pubblico più distratto.

Debitori di “Soniche Ministrate” i 5 bolognesi stupiscono in questo loro album d’esordio dove i sintetizzatori e i cori portanti risultano necessari per dare quel tocco di originalità ed energia che si lascia andare in refrain calcolati alla perfezione.

“In fuga verso il confine” è forse la traccia che imprime maggiormente il concetto di protesta mentre “Il prezzo” nel finale, regala attimi cupi di blues maledetto e vertigini sonore.

Gran novità questa, tra le fila della musica italiana; un gruppo che riesce nell’intento di andare diretto al bersaglio senza usare mezzi termini e mezze misure: sentiremo ancora parlare di loro.

Hey Saturday Sun – Hey Saturday Sun (Stupid Alien Records)

hey-saturday-sun-musica-streaming-hey-saturday-sunSiamo di fronte ad un progetto che guarda al miracoloso con un certo piglio e autorevolezza di chi solo si ritiene capace di manipolare i suoni in modo perfettamente maniacale.

Si perché di sovente sentiamo progetti supportati da matrice post-rock- emotion anche se a ben sentire questa volta il polistrumentista umbro Giulio Ronconi riesce a riaccendere  le speranze in un’Italia forse omologata all’incedere quotidiano dei mass media e dei radical chic da aperitivo.

L’album è un insieme di suoni in feedback che si alternano talvolta ad un cantato filtrato che ricorda il Jonsi più meditativo e gli Air di Talkie Walkie.

In questi 10 intensi brani, sintetizzatori si alternano a batterie in lontananza, poche chitarre e tanti suoni ultraterreni che fanno compiere giri vorticosi in universi infiniti.

Ascoltare Hey Saturday sun è come accomodarsi all’interno di un bosco, sulle foglie appena cadute e osservare l’intorno  che evolve in poco più di mezz’ora: il sole filtra appena e le stagioni fanno capolino in un unico libro aperto chiamato natura.

Sorprende il tutto per scelta stilistica e suoni che si imprimono in modo notevole in pezzi come “The other city” lasciando posto ad una seconda parte del disco più movimentata da canzoni-simbolo quali  “1.9.8.9”  e le due “Museum of Revolution”.

Un disco da riascoltare più volte come onde fluttuanti in tiepidi lidi, gli occhiali da sole sono d’obbligo per non rischiare di rimanere abbagliati.

 

Andrea Carri – Metamorfosi (Autoproduzione)

Andrea Carri affascina per approccio, un pianoforte disperso nella boscaglia  a fare da sfondo a scene di vita nel cambiamento, quasi ad indicare un perfetto sodalizio tra uomo e natura che, percorrendo i sentieri e i fiumi in piena della memoria, regala emozioni a chi le sa ascoltare per pandreacarrioi, in modo opportuno rielaborarle nel racconto quotidiano.

Una musica d’atmosfera che potrebbe accompagnare il più bello e il più triste dei finali, il più bello e il più triste degli inizi, quasi colonna sonora da assaporare fino all’ultima nota.

Questo giovane pianista emiliano di 23 anni è accompagnato da Roberto Porpora agli effetti elettronici sonori dove il tutto assume il contorno della meraviglia per il gusto del declino melodico e per gli arrangiamenti minimali e sovrapposti a linee quasi Einaudiane,  da Van Veen lontano km ai porti senza confini di Terry Riley.

Tracce che prendono il sopravvento si colgono nella bellissima “Memoria”: un intreccio di rami-voci ad innescare quella catena emozionale tipica di chi sa usare con eleganza anche il singolo rumore dal nulla.

Un pianista da tenere d’occhio questo, anche per il cammino di viaggiatore che sta intraprendendo, per il piglio di coraggio che lo contraddistingue nel muoversi in terreni già marcatamente battuti e per la volontà di farcela sempre e comunque nell’eterno divenire.