Pedalò – Sale (Mia cameretta records)

Brani brevi, sinceri, schietti, volteggianti in sabbie sconosciute, echi di Three second kiss a sottolineare testi imperniati di negazione, poesie con il dente scoperto e dichiaratamente post punk; svalvolate contromisure al nulla che avanza.

Napoletani doc che osano oltre le coincidenze e oltre le “polluzioni notturne” eco di ciò che rimane dopo la mareggiata sulla spiaggia deserta, progetto d’oltreconfine che dona al giovane trio, Emilio, Michele, Stefano, una capacità notevole di evidenziare in poche righe e in pochi attimi pensieri che possono sembrare sconnessi o alla rinfusa e che invece risultano essere segnati da un percorso preciso, che non bada a compromessi o a mezze misure.

Ecco allora che l’ascoltatore si ritrova su di una spiaggia piena di persone scomparse, abbandonate al sole nell’egoismo più totale, mentre “Pedalò” raccoglie pensieri su un’agenda ricca di appunti: 60 canzoni, 46 lasciate fuori, “ristrette solo”a 14, gridate e lacerate dai raggi roventi, da un mondo che non ci appartiene, dal nulla che aspetta mentre il mare bagna i pochi “coglioni” rimasti a guardare, e i gabbiani, da cornice, volano nel cielo, rotanti come eliche all’orizzonte.

E voi siete pronti a spiccare il volo?

Io non sono Bogte – La discografia è morta e io non vedevo l’ora (LabelPot records)

Daniele Coluzzi assieme a Carlotta Benedetti, Federico Petitto, Dario Masani forma la band romana dei “Io non sono Bogte”.

Si fanno conoscere al pubblico nell’autunno 2011 con il singolo“La musica italiana e altre stragi”, uscito in contemporanea con il libro “Rock in Progress – Promuovere, distribuire, far conoscere la vostra musica” scritto da Daniele, nonché piccolo e prezioso vademecum per band emergenti.

Una prima particolarità di questo inno alla decadenza della musica in Italia si scopre dal formato: una chiave usb a forma di cassetta, un ritorno alle origini con lo sguardo al futuro, un invito quasi a comprare l’album a prescindere dal contenuto.

La musica dei “Io non sono Bogte” è abbastanza uniforme per genere al filone di cantautori cosiddetti degli anni zero “Vasco Brondi, Colapesce, Di Martino ecc…” anche se qui la dialettica si fa vivace e più visionaria.

La band riesce a cogliere le sfumature di una catastrofe con parole semplici, ma sapientemente utilizzate, cori perfetti e segni di cinismo esistenziale che legano ricordi al futuro incerto, lontano, senza vie di fuga.

Sembra di ascoltare un frullato punk rock di sogni adolescenziali post fine mondo.

“Io non sono Bogte” intro tagliente per gli addetti del settore.

Scambio di prosa elettrica in “La musica italiana e altre stragi” cantando “Lavoro precario portami via…”.

“Il mercato delle ostie” pezzo con cavalcate alla CSI e pause di frammenti interiori.

“Papillon” la canzone più incisiva del disco, ci si chiede: che cosa potevo fare ancora di più di quello che ho fatto?

“Cinque e mezzo” apre il disco verso un’altra via, più introspettiva e malinconica.

Simbolo di questa malinconia la si trova in “La cosa più importante è che tu stia male” e in “Margaret nella testa”.

Canzone legata invece al filo del ricordo indelebile è “Ti ho confessato tutto il mio amore” che lascia posto alla sperimentale “Sette anni di prudenza”.

L’album chiude la sua circolarità con “L’aridità sentimentale e altre cose che ti appartengono”.

Annientamento, illusione, malinconia, senso di fallimento e risalita: perchè non sempre è facile racchiudere in mezzora un concetto che può sembrare ormai sfruttato e abusato.

“Io non sono Bogte” invece dalle ceneri dello zero regalano emozioni a lunga conservazione per rinascere, ancora una volta.

Molotoy – The Low Cost Experience (Modern Life)

E tutte queste dissonanze trasportate dal vento dove si insinueranno?

Forse nei meandri più bui dell’inconscio o in cornici di sogni perfetti quasi da nascondere l’inutilità al desiderio di voler comunicare, di voler aggiungere quel qualcosa in più che non è di questo mondo, o perlomeno del mondo conosciuto, che non fa parte della massificazione di cui siamo abituati, dell’incedere sornione di gruppi cartolina che sfoggiano il potere solo con la coscienza di chi ha poco da dire.

Per i Molotoy non servono parole, ma solo indubbie presentazioni, già Low Cost essi sono Gianluca Catalani batteria, Andrea Minichelli violino, Marco Gatto chitarre, Astroboy rumori e Andrea Buttafuoco basso e tastiere.

Il loro è un genere inclassificabile, diciamo che non hanno genere e nemmeno, a mio riguardo, si meritano una classificazione.

Si muovono tra Mogway, Daft Punk, Air, Eterea PBB , facendo dell’elettronica il nucleo centrale dell’intero album non dimenticando la classicità di violini presenti nella bellissima “Super Attack” d’apertura e in numerose altre tracce.

“We are the volvo” è un singolo assai ballabile che obbligatoriamente ti fa scuotere la testa, anche se le impennate alla Mars Volta non sembrano mancare.

“Holymount in the Rain” è colonna sonora, ballata per anime delicate sotto pioggia di lacrime.

“Kukkiko Ronf “ è traccia di “Bimbo A”, mentre “Laqu” segna la fine del mondo impressionando per la proposta che si fa d’ampio respiro internazionale.

“Werther” è melodia dolorosa che si apre a intrecci di chitarre “hendrixiane”: sottofondo per lettere cancellate dallo scorrere del tempo.

Nel finale “Digital Bohemien” ricorda invece i nuovi Muse, creando però, atmosfere più rarefatte e ipnotiche.

Un disco che si fa strada all’interno dello strumentale, qualcuno lo ricorderà di certo, anche perchè questa “Esperienza a basso costo” ha illuminato, come stella cadente, questo grigio pomeriggio di Gennaio.

Lorenzo Lambiase – Lupi e Vergini (Modern Life / Audioglobe)

Il giovane Lorenzo Lambiase, romano, classe 1981, ci regala, dopo il primo album La Cena, un disco di lirismo esistenziale, questo, dove il cantautore riesce a raccontare momenti di storia vissuta sapendo sperimentare sapientemente gli strumenti a disposizione.

Lupi e vergini è il contrasto di un’esistenza reale, ci sono elementi quali il trascorrere del tempo, l’abisso e la risalita, la vita dopo la morte e la coscienza che lascia spazio alla negatività a tratti dell’esistenza.

Dalla cover sembra di fare un tuffo nei paesaggi umbri o toscani, tanta è l’immaginazione che viene a crearsi nella mente di chi ascolta.

A volte il tutto suona cupo come nella TitleTrack, a volte ci si può imbattere nel Moltheni più intimista o nei Tiromancino più elettronici anche se Lorenzo in più passaggi strizza l’occhio al miglior cantautorato di sempre.

“Ho visto troppa gente stupida nuotare contro il vento” canta in Contro il vento mentre in Sulla riva si fa portatore di un grido quasi disperato e allo stesso tempo scandito da dolci parole di preghiera “Ma il rumore dei miei pensieri è più forte, non riesco a respirare”.

Periferia è canzone ricercata, fluida, sperimentale con stile e anche qui il tema del tempo dall’incedere inesorabile “Ho aspettato troppi anni, ho aspettato inutilmente”.

In Gospel sembra di sentire il miglior Tom Mcrae, mentre La strada ricorda molto gli Snow Patrol.

Solo rievoca Touristiane memorie del computer oxfordiano per eccellenza mentre La grande rivolta , canzone di sette minuti, chiude con ricercata misura, il viaggio.

Il cantautore romano, in questa prova, mette sul tavolo tutte le doti di polistrumentista e ricercatore.Essenziale, ma ricco di sfumature risulta l’intero album che nella sua omogeneità regala un cerchio quasi perfetto dove fiaba e realtà si incontrano e scontrano  in un unico mondo.

Santo Barbaro – Navi (Autoproduzione)

I Santo Barbaro nascono nel 2007 dalle menti di Pieralberto Valli e Marco Frattini.

Tre i dischi con questo pubblicati fino ad ora: nel 2008 Mare morto, Lorna nel 2010 e il nuovo Navi a Dicembre 2012.

Il duo, in questa ultima fatica, racconta di paessaggi scarni, affascinanti dove grida misteriose si mescolano alla nebbia mattutina che ti regala, fluttuante, nuvole di neve.

Le parole non sembrano portare al niente ci si lascia prendere dall’incastro, dalla poesia di frasi che non lasciano posto al cantautorato verboso, ma piccole gocce di tempesta su di un mare tutt’altro che calmo dove Navi fluttuano senza meta, raggiungendo isole misteriose e inospitali.

Grande è questa prova del duo, che attraverso sussurri, emoziona il cuore; quel cuore tanto vicino al cantautorato italiano degli ultimi tempi, quello con la C maiuscola (Non voglio che Clara, Virginiana Miller), ma con l’aggiunta di un’elettronica quasi claustrofobica, ridondante new wave che crea immagini e visioni.

Nel disco si suonano sintetizzatori, pianoforti, bassi, chitarre e lamiere e ne è meravigliosa testimonianza Quercia, mentre echi di rock atmosferico si suonano in Transit, come Non sei tu ricorda Yorke nella sua prova solista, bellissima poi la calda e conturbante Prendi me che lascia posto a sottomarini gelidi di La tempesta dove naufragi chiudono il disco con Nove Navi.

Se almeno le stelle cadessero altrove, se il cuore non fosse così poco visibile, se il vento non fosse così difficile da spingere altrove…allora tutto sembrerebbe più semplice, più facile, più vero.

Grazie ai Santo Barbaro che anche questa volta ci hanno fatto comprendere la bellezza nascosta dietro a vetri grigio fumo.